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giovedì 27 settembre 2012

Cassazione: ecco quando i maltrattamenti sul posto di lavoro sono equiparabili ai maltrattamenti in famiglia

Il luogo di lavoro tal volta può essere equiparato all'ambiente domestico e per questo eventuali maltrattamenti vanno equiparati a quelli che si subiscono in casa. È quanto afferma la corte di cassazione (sentenza n. 12517/2012) indicando in quali casi chi subisce vessazioni sul lavoro può ottenere la condanna ai sensi dell'articolo 572 del codice penale che prevede e punisce i maltrattamenti in famiglia. Secondo la Corte di Cassazione l'equiparazione si verifica in tutti quei casi in cui "il rapporto di lavoro e' caratterizzato da famigliarita'" come ad esempio quando si pernotta nello stesso luogo e si consumano insieme i pasti.  
Insomma tutte le volte che c'è, in forza del rapporto di lavoro, una condivisione della quotidianità. Nel caso esaminato dai giudici di piazza Cavour la dipendente di un calzaturificio aveva subito delle vessazioni dai datori di lavoro ma la Corte ha escluso che "esistesse un rapporto di natura parafamigliare". La corte fa notare che solo quando si registra sul luogo di lavoro "una assidua comunanza di vita" il maltrattamento può essere punito come se si trattasse di maltrattamenti in famiglia.

Cassazione: La casa non fa reddito per il computo della pensione di invalidità

Per ottenere la pensione di validità la casa non far reddito lo afferma la sezione lavoro della Corte di Cassazione (sentenza 5479/2012) che ha respinto il ricorso dell'Inps nei confronti di un uomo di firenze a cui avevano accertato un'invalidità al 100%. Per calcolare la pensione, secondo l'Inps ha sarebbe stato necessario calcolare anche il reddito imponibile dell'abitazione. Di diverso avviso però la suprema corte che ha quindi bocciato il ricorso dell'istituto di previdenza ed ha ricordato che per riconoscere le pensioni ai cittadini ultrasessantenni "dal computo del reddito sono esclusi gli assegni familiari e il reddito della casa di abitazione".  
Nel respingere il ricorso la corte ricorda che, sul piano normativo, occorre fare riferimento alla legge 118/1971 che rinvia per le condizioni economiche richieste per la concessione della pensione di inabilità, a quelle stabilite dalla legge 153/1969 "per il riconoscimento di pensioni ai cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito e per queste ultime pensioni dal computo del reddito sono esclusi gli assegni familiari e il reddito della casa di abitazione". Secondo la Cassazione in sostanza si applica la normativa prevista per la pensione sociale in tema di pensione di inabilità.

Cassazione: possono bastare tre telefonate private dall'ufficio per rischiare il licenziamento

Ancora una volta la corte di cassazione torna a fare chiarezza su cosa si rischia a fare telefonate private dall'ufficio. Secondo i giudici del palazzaccio si può anche perdere il posto di lavoro. Le chiamate private effettuato dall'ufficio, infatti, possono ledere il rapporto fiduciario con l'azienda se vengono fatte da chi svolge un'attività che richiede particolare attenzione. Il chiarimento arriva dalla sezione lavoro della Corte che ha confermato la legittimità di un licenziamento inflitto ad un addetto alla sorveglianza che lavorava all'ingresso di un presidio ospedaliero.
Nell'arco di tre giornate aveva fatto diverse telefonate private ciascuna della durata di un'ora. Dopo l'accaduto l'istituto di vigilanza che aveva in appalto i servizi, intimava il licenziamento al sorvegliante dopo aver appreso l'esito dei controlli effettuati dallo stesso ospedale. Il caso finiva in cassazione dove il lavoratore che tra le altre cose aveva sostenuto che nel caso di specie era stata lesa la sua privacy con dei controlli a distanza. La Corte ha respinto il ricorso facendo notare che "e' stato conferito giusto risalto al tipo di attivita' svolta dall'addetto alla sorveglianza all'ingresso del presidio ospedaliero, che richiede particolare attenzione per evitare il rischio di intrusioni di soggetti non autorizzati, eventualmente pericolosi, in un ambiente quale quello ospedaliero, evidenziandosi anche il pregiudizio rispetto alla perdita di future commesse da parte della societa' che aveva in appalto il servizio". E non basta: la cassazione ha spiegato che poco importa se "analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro". Tutto dipende dal tipo di posto che si occupa.

Cassazione: atteggiamento di sfida del dipendente e insubordinazione? Legittimo il licenziamento

Il comportamento reiteratamente inadempiente posto in essere dal lavoratore, come l'abbandono per un'ora e mezzo del posto di lavoro, l'uscita dal lavoro in anticipo e la mancata osservanza delle disposizioni datoriali e delle prerogative gerarchiche, è contraddistinto da un costante e generale atteggiamento di sfida e di disprezzo nei confronti dei vari superiori gerarchici e della disciplina aziendale tale da far venir meno il permanere dell'indispensabile elemento fiduciario. E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 5115 del 30 marzo 2012, ha rigettato il ricorso proposto da una lavoratrice avverso la decisione con cui la Corte d'Appello aveva respinto la domanda diretta alla dichiarazione di illegittimità delle sanzioni disciplinari conservative irrogatele dalla datrice di lavoro oltre che del licenziamento. In particolare la Suprema Corte ha ricordato che "in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della "causa" idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 cod. civ.". Inoltre "anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative - e non per le sole sanzioni espulsive - deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta". Nella fattispecie in esame - si legge nella sentenza - può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d'appello, con specifico riferimento ai vari episodi contestati di insubordinazione che condussero nel loro insieme al licenziamento, appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro. Inoltre, la valutazione della gravità degli addebiti ai fini del licenziamento è stata eseguita dal giudice d'appello nel suo complesso, dopo che si è dato rilievo al fatto che il potere sanzionatorio era stato esercitato gradualmente nella prospettiva di ristabilire un corretto rapporto lavorativo.

Cassazione: va aumentato il mantenimento alla ex che perde il lavoro. La strumentalità del licenziamento va dimostrata

Va aumentato il mantenimento alla ex che perde il lavoro. Lo ricorda la Corte di Cassazione (Sentenza n. 4312/2012) occupandosi del caso di cue coniugi che avevano ottenuto l'omologa di una separazione consensuale nella quale era stato determinato l'assegno di mantenimento nella misura di € 450 mensili. L'ex marito aveva successivamente ottenuto la riduzione a € 200 mensili dell'assegno di mantenimento essendo cambiate le sue condizioni economiche e avendo la moglie un'occupazione lavorativa stabile. La donna chiedeva a sua volta la revisione delle condizioni economiche della separazione deducendo di aver perso il posto di lavoro subito dopo il provvedimento della corte d'appello e chiedeva di nuovo l'aumento ad almeno € 500 mensili. 
Alla fine il Tribunale rideterminava l'importo nella misura di € 450. Su reclamo dell'ex marito la corte d'appello riduceva di nuovo l'assegno nella misura di € 200 mensili ritenendo che la perdita del posto di lavoro fosse strumentale, data l'epoca sospetta in cui era avvenuta. Il caso finiva quindi dinanzi alla corte di cassazione. Gli ermellini analizzando la motivazione della corte d'appello affermano che si tratta di argomentazioni del tutto assertive laddove si afferma una presunta strumentalità del licenziamento della donna. Mancherebbe in sostanza una ragione giustificativa, oggettiva e plausibile di un comportamento fraudolento e strumentale di cui manca un riscontro probatorio. Del resto, fa notare la Suprema Corte, la stessa ricorrente se avesse posto in essere un comportamento fraudolento si sarebbe volontariamente procurata un danno economico significativo.

Cassazione: la responsabilità dei genitori è quasi oggettiva ma è deterrente per chi trascura l'educazione

La Corte di Cassazione occupandosi di un caso di responsabilità dei genitori per fatto compiuto da minorenne fa notare come a carico di mamma e papà, soprattutto quando i figli sono prossimi alla maggiore età, si configura una responsabilità che rasenta quella oggettiva e che potrebbe apparire eccessiva ma, secondo la corte si tratta di una responsabilità che serve da deterrente per far capire che non basta, ai fini della prova di non aver potuto impedire il fatto, dimostrare di avere genericamente dato un'educazione al figlio, ovvero di averlo avviato al lavoro, ma "e' necessario dimostrare in modo rigoroso di avere impartito insegnamenti adeguati e sufficienti per educarlo ad una corretta vita di relazione". 
E così la terza sezione civile della corte (sentenza 4395/2012) ha convalidato un maxi risarcimento a carico di una ragazza e dei suoi genitori per la morte di un carabiniere. Al momento dei fatti la ragazza era minorenne e mentre scherzava con il fidanzato carabiniere che le aveva consentito di maneggiare la pistola d'ordinanza, lo aveva accidentalmente ucciso esplodendo un colpo a distanza ravvicinata. La Cassazione ha convalidato il giudizio della corte d'appello che aveva condannato sia la ragazza sia i suoi genitori che non erano stati in grado di educare la figlia ormai sulla soglia dei 18 anni. Tutti dovranno quindi risarcire i genitori del carabiniere con un esborso di 5 90.000 ciascuno +21 mila euro per ciascuno dei fratelli della vittima. E' vero, spiega la corte di cassazione, la responsabilità a carico dei genitori di un minore, soprattutto se sta per raggiungere la maggiore età, potrebbe essere eccessiva e diventare una sorta di responsabilità oggettiva (se figli commettono delle bravate è come se l'avessero commesse genitori stessi) ma si tratta di un valido deterrente per quei genitori che trascurano l'educazione dei figli perché, spiega la corte, "per un verso ingenera il possibile interesse anche economico dei genitori ad impartire ai figli un'educazione che li induca a percepire il disvalore sociale dei comportamenti pericolosi per gli altri; e, per altro verso, e' in se' idoneo a sollecitare la precauzione dei minori allo stesso fine, anche per il timore della possibile reazione dei genitori che fossero chiamati a rispondere delle conseguenze dei loro atti illeciti in danno dei terzi".

Cassazione: niente affido condiviso a mamma e papà che non si parlano

Niente affidamento condiviso ai genitori incapaci di dialogare. Se mamma e papà non riescono a parlare tra loro i figli rischiano di essere sottoposti a stress. È quanto afferma la prima sezione civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 5108 /2012) che ha respinto il ricorso di un padre separato che aveva chiesto di ripristinare l'affidamento condiviso. I giudici di piazza Cavour, ricostruendo la vicenda, hanno fatto notare come i due coniugi dopo la separazione avevano smesso di parlare tra loro e sottoposto la figlia a due turni a scuola, a due diverse attività sportive e persino a due diete alimentari diverse.
Tutto questo aveva determinato nella figlia confusione e alterazione della sua condizione psicologica. Al momento della separazione il giudice aveva stabilito l'affidamento condiviso ma successivamente, data la situazione, l'affidamento condiviso era stato revocato ed era stato disposto l'affidamento in via esclusiva alla madre cui veniva affidato anche l'esercizio esclusivo della potestà genitoriale. Ricorrendo in Cassazione il padre separato ha tentato di dimostrare che l'affido esclusivo alla madre avrebbe dato vita ad atti di prevaricazione del genitore affidatario. La Suprema Corte ha respinto il ricorso ed ha ritenuto legittimo il provvedimento di revoca dell'affidamento ad entrambi i coniugi proprio perché era emerso che l'affido condiviso era risultato nocivo per la minore "e possibile fonte di future patologie per la stessa, in quanto generante ansia, confusione e tensione e dunque irreprensibilmente concluso per la sussistenza di condizioni pregiudizievoli al suo interesse".

Cassazione: va ridotto assegno a ex moglie disoccupata se ha una qualifica professionale

Può essere ridotto l'assegno di mantenimento alla ex moglie disoccupata sulla base dle rilievo che è in possesso di una qualifica professionale. È quanto ha stabilito la prima sezione civile della Corte di Cassazione (sentenza n.4571/2012) secondo cui occorre tenere conto di quella qualifica come possibile fonte di reddito. La Corte richiama la necessità di tenere conto del dettato normativo con riferimento alla valutazione ponderata comparata delle situazioni di entrambi i coniugi. Nella fattispecie la donna pur essendo risultata priva di mezzi economici non è stata ritenuta anche priva della capacità di produrre reddito.
In primo grado il Tribunale nel dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio aveva imposto all'ex marito di pagare un assegno di 700 euro per il suo mantenimento oltre un contributo per mantenere due figli maggiorenni conviventi con la madre. La corte d'appello riduceva la misura del mantenimento per la ex moglie e per i figli facendo rilevare che la donna pur avendo diritto all'assegno aveva la qualifica di insegnante con la possibilità dunque di dare lezioni private o di collaborare con scuole pubbliche o private. Su queste basi la corte d'appello aveva stabilito la riduzione dell'assegno. Il caso finiva quindi in cassazione che confermava le motivazioni adottate dalla Corte d'Appello. Sentenza 4751/2012

Cassazione: illegittimo il licenziamento del dirigente che denuncia per illeciti il datore di lavoro

"La mera sottoposizione all'autorità giudiziaria di fatti o atti per valutarne la rilevanza penale e per la verifica della integrazione di estremi di specificati titoli di reato non può avere riflesso nell'ambito del rapporto di lavoro, anche se connotato da un particolare vincolo di fiducia come quello del lavoratore con qualifica dirigenziale e non costituisce un comportamento di rilievo disciplinare sanzionabile con il licenziamento.". E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 4707 del 23 marzo 2012, ha ribadito, come da consolidata giurisprudenza, che "l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, solo se presenta modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale costituisce comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall'art.  2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento. Ma, le opinioni espresse dal lavoratore dipendente, anche se vivacemente critiche nei confronti del proprio datore di lavoro, specie nell'esercizio dei diritti sindacali, non possono costituire giusta causa di licenziamento, in quanto espressione di diritti costituzionalmente garantiti dalla libertà di critica, salvo che il comportamento del lavoratore si traduca in un atto illecito, quale l'ingiuria o la diffamazione, o in una condotta manifestamente riprovevole.". Nella specie la corte d'appello ha rilevato che la contestazione disciplinare ha riguardato l'iniziativa assunta dal dirigente, con riferimento al contenuto di "denunce" rivelatesi infondate in esito al procedimento penale che anche da esse aveva tratto origine reputando che l'addebito di essersi rivolto alla autorità giudiziaria inquirente non fosse idoneo a sostenere il recesso datoriale per giusta causa e neppure comprovava la "giustificatezza" del licenziamento. Corretta - secondo i giudici di legittimità - la decisione della Corte d'Appello che ha motivato diffusamente e senza contraddizioni il proprio convincimento in ordine alla inidoneità degli esposti del dirigente all'autorità giudiziaria a ledere il rapporto fiduciario e a recare pregiudizio all'immagine aziendale.

Cassazione: legittimo il licenziamento del lavoratore che timbra il badge per i colleghi assenti

Legittimo il licenziamento disciplinare intimato sia al lavoratore che timbra il badge dei colleghi assenti sia ai lavoratori che ne beneficiano. E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 4693 del 23 marzo 2012, ha rigettato il ricorso proposto da tre dipendenti licenziati dall'azienda presso cui prestavano servizio per aver, in più di un'occasione, fittiziamente ottemperato l'obbligo di regolare presenza sul posto di lavoro mentre erano di fatto assenti dallo stabilimento per l'intera giornata lavorativa. La Suprema Corte, confermando la decisione del giudice d'Appello, precisa che la condotta contestata appariva connotata da un elemento particolarmente intenso e fraudolento, frutto di un preventivo accordo, che implicava la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal rapporto di lavoro subordinato ed era idonea a ledere la fiducia dell'azienda nella futura correttezza dell'adempimento della prestazione lavorativa. 
Confermato quindi il licenziamento che, secondo i giudici, trova conforto altresì nelle norme del codice disciplinare e in quelle del CCNL che prevedono il licenziamento senza preavviso di fatti che costituiscono delitto a termine di legge, come appunto l'illecito ascritto ai ricorrenti idoneo ad integrare gli estremi della fattispecie di cui all'art. 640 c.p.

Cassazione: legittimo provvedimento che dispone chiusura temporanea del bar che vende alcolici a minorenni

La Corte di Cassazione lancia un avvertimento ai gestori dei bar: se si vendono alcolici ai minori di 16 anni non si rischia solo una multa ma anche la chiusura temporanea del locale. Il monito arriva dalla quinta sezione penale della corte (sentenza n. 11214/2012) che ha convalidato la pena accessoria della sospensione per tre mesi nei confronti di un bar dove erano state somministrate bevande alcoliche a due ragazzi che non ancora compiuto 16 anni. La titolare del bar era stata multata dal giudice di pace e, come pena accessoria, era stato disposta anche la chiusura temporanea del bar. 
La pena era stata giudicata eccessiva dalla titolare che per questo si è rivolta alla suprema Corte. I giudici del palazzaccio però hanno respinto il ricorso evidenziando che l'articolo 689 c.p. che sanziona la somministrazione di alcolici minorenni contempla anche questa ulteriore pena accessoria e che pertanto deve ritenersi legittima la chiusura per un determinato periodo di tempo del locale.
La norma richiamata dalla Corte dispone in particolare che "L'esercente un'osteria o un altro pubblico spaccio di cibi o di bevande, il quale somministra, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, bevande alcooliche a un minore degli anni sedici, o a persona che appaia affetta da malattia di mente, o che si trovi in manifeste condizioni di deficienza psichica a causa di un'altra infermita', e' punito con l'arresto fino a un anno.
Se dal fatto deriva l'ubriachezza, la pena e' aumentata.
La condanna importa la sospensione dall'esercizio".

Cassazione: papà ritardatario? La mamma può trattenere il figlio con sé

Una tirata di orecchie per i papà ritardatari arriva dalla Corte di Cassazione che ricorda: i figli non sono pacchi in balia dei capricci o di altre finalità dei genitori. Prima di tutto, spiegano gli Ermellini, bisogna tenere in considerazione l'interesse morale e materiale dei minori che sono soggetti di diritti e non meri oggetti di finalita' perseguite dai coniugi. In questo modo la Sesta sezione della Corte ha annullato una doppia condanna (per mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) che il tribunale e la Corte d'appello avevano inflitto ad una giovane mamma separata che aveva deciso di andare a riprendere suo figlio dagli Scout nel giorno di visita del papà.  
Secondo la cassazione il genitore affidatario che tiene con sé il figlio a causa di continui ritardi dell'altro genitore nei giorni di visita stabiliti, non può essere condannato. La giovane mamma in sostsanza aveva prelevato il figlio minorenne dall'associazione di scout dove invece doveva andare a riprenderlo il padre. La donna però si era semplicemente sostituita al padre ritardatario proprio per non lasciare da solo il bambino. Il caso finiva in Tribunale e la donna veniva condannata a due mesi di reclusione (pena poi ridotta dalla Corte d'Appello). La donna si è così rivolta alla Suprema Corte facendo notare come il ragazzino non poteva essere trattato come un pacco e che la mancata consegna al padre non era affatto un gesto di ritorsione o un gesto dovuto alla volontà di non rispettare le disposizioni di un giudice ma semplicemente un gesto dettato dalla necessità di non lasciare il bambino "senza una necessaria quanto rassicurante presenza genitoriale"

Cassazione: anche un breve ritardo può giustificare la risoluzione del contratto

Nel valutare la gravità dell'inadempimento di una delle parti per decidere in merito alla risoluzione di un contratto che prevede prestazioni corrispettive (nella fattispecie una compravendita immobiliare) il giudice deve valutare la gravità dell'inadempimento di una delle parti essendo questo un elemento che tiene il fondamento stesso della domanda. Nel compiere questa valutazione il giudice non deve considerare solo l'entità "oggettiva" dell'inadempimento ma considerare anche l'interesse che l'altra parte intende realizzare.
In buona sostanza il giudice deve adottare un criterio capace di coordinare la valutazione sull'elemento "oggettivo" della mancata prestazione con gli elementi "soggettivi". Il chiarimento arriva dalla seconda sezione civile della Corte di Cassazione (Sentenza n.3477/2012) che si è occupata di una richiesta di risoluzione di un preliminare di compravendita immobiliare. I giudici di merito avevano respinto la domanda sulla base della considerazione che la parte inadempiente aveva comunque versato una cospicua caparra ed era passato solo poco tempo tra la diffida ad adempiere e la richiesta di stipula del contratto definitivo. La Corte di Cassazione ha ribaltato il verdetto facendo notare che l'inadempimento non poteva considerarsi di scarsa importanza dato che andava ad incidere su obbligazioni essenziali e cioè la stipulazione entro una certa data e il pagamento del prezzo residuo.

Cassazione: indennizzabilità di infortunio "in itinere", se il lavoratore usa il proprio ciclomotore deve allegare l'orario dei mezzi pubblici di trasporto

La Corte di Cassazione, con ordinanza 3117 del 2012, ha rigettato il ricorso proposto da un lavoratore che chiedeva l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello la quale, confermando la decisione del Tribunale, riteneva non adempiuto l'onere di allegazione delle circostanza di fatto. Il caso preso in esame dalla Suprema Corte ha come protagonista un lavoratore che subiva un infortunio mentre si recava, dalla sua città al luogo di lavoro, con il suo ciclomotore, con una scelta impostagli dalla inadeguatezza dei collegamenti pubblici tra le due cittadine. 
I Giudici di merito rigettavano la domanda del lavoratore, nei confronti dell'INAIL, ritenendo che egli non avesse adempiuto l'onere di allegazione delle circostanza di fatto concernente gli orari dei trasporti pubblici che collegano le due città, limitandosi a chiedere prova sulla "inadeguatezza dei servizi pubblici di trasporto"; non ammessa quindi la prova per la sua genericità e perché non concerneva fatti, ma valutazioni. Il lavoratore affermava che il giudice di merito avrebbe così "violato l'art. 2967 cc nel punto in cui ha deciso la controversia senza esperire l'utilizzo dei doveri istruttori cui è chiamato il giudice del lavoro". Non la pensano così i giudici di legittimità secondo cui la prospettazione del lavoratore è manifestamente infondata, perché "il giudice del lavoro non è tenuto ad esercitare i poteri istruttori in situazioni in cui il problema non è quello di completare un quadro probatorio insufficiente, ma di colmare una lacuna che concerne la mancata allegazione di circostanze di fatto decisive per la definizione della controversia."

Cassazione: con separazione finisce il comodato. La casa va restituita al suocero se non è stata assegnata come casa coniugale

Con sentenza n. 2103, depositata il 14 febbraio 2012, la Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di separazione, finisce anche il comodato della casa data alla nuora. Infatti l'occupazione, in questo caso diventa sine titulo, determinando la restituzione del bene. I giudici di legittimità, hanno così rigettato il ricorso di una donna che abitava, in virtù del contratto di comodato nell'immobile di proprietà del suocero. Nella parte motiva della sentenza si legge che "è necessario attribuire rilevanza al dato oggettivo dell'uso cui la cosa è destinata".
Nel caso di specie c'era stata una specifica destinazione a casa familiare e tale destinazione, secondo la Corte , "è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall'incertezza che caratterizzano il comodato cosiddetto precario e che legittimano la cessazione ad nutum del rapporto su iniziativa del comodante". Secondo la Corte "il vincolo di destinazione, pertanto, appare idoneo a conferire all'uso, cui la cosa doveva essere destinata, il carattere di termine implicito della durata del rapporto, la cui scadenza non è determinata, ma è strettamente correlata alla destinazione impressa e alle finalità cui essa tende". La vicenda processuale vede come protagonisti un suocero e sua nuora. Il primo aveva concesso in comodato alla nuora una casa che doveva diventare la casa familiare. Quando questa però si è separata dal marito non aveva voluto sentire ragioni aveva rifiutato di restituire la casa che gli era stata concessa proprio in ragione del matrimonio. Il suocero dunque aveva interessato la giustizia per chiedere la condanna della nuora all'immediata riconsegna del bene e al risarcimento dei danni per l'importo di quindicimila euro. In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda volta ad ottenere il rilascio dell'immobile in quanto il comodato era da ritenersi precario ex art. 1810 c.c. La donna proponeva appello e la Corte distrettuale lo respingeva, sostenendo che l'appellato fosse l'unico proprietario. Infatti, l'attore, aveva dato in comodato l'appartamento al fine di adibirlo ad abitazione familiare del figlio e dell' appellante. Sta di fatto che il provvedimento che regolava la separazione non aveva assegnato all'appellante l'appartamento come casa coniugale. La donna proponeva ricorso per cassazione. Rigettando il ricorso e spiegando le ragioni della legittimità del provvedimento emesso dalla Corte distrettuale, la Corte, citando una sentenza delle Sezioni Unite, a riguardo, n. 13603/2004, ha inoltre aggiunto che "secondo tale orientamento, il comodato adibito ad uso casa coniugale rientrerebbe nell'ipotesi di cui al comma l dell'art. 1809 c.c., la cui restituzione, pertanto, è legata al termine dell'utilizzo. Nel caso in esame, essendo venuta meno la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene oggetto di comodato, è venuto meno anche lo scopo di quest'ultimo".
Sentenza n. 2103/2012

Cassazione: legittimo il licenziamento del lavoratore assenteista pur in mancanza dell'affissione del codice disciplinare

"In tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie all'etica comune o concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro ovvero all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa del datore di lavoro."
". E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 3060 del 29 febbraio 2012, ha accolto il ricorso di un datore di lavoro avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello riteneva che per il fatto addebitato al lavoratore - concretatosi nell'assenza ingiustificata dal luogo di lavoro per cinquanta giorni - era necessaria, ai fini della legittimità della sanzione espulsiva, la previa affissione del codice disciplinare. La Suprema Corte, affermando che la decisione della corte territoriale non è conforme ai principi richiamati, sottolinea che l'obbligo di rendere la prestazione rientra tra i doveri fondamentali e non accessori del lavoratore con la conseguenza che la sua inosservanza, per essere sanzionata con il licenziamento, non abbisogna di essere portata a conoscenza del lavoratore.

Cassazione: niente casa familiare a mamma affidataria se figlio ha trovato un "habitat" favorevole nell'abitazione del nuovo compagno

Se lei dopo la separazione è andata a vivere nella casa di un nuovo compagno con il suo bambino che nella nuova casa ha trovato un habitat favorevole, dovrà rinunciare all'assegnazione della casa coniugale. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione (n. 1787, depositata l'8 febbraio 2012), Secondo cui la casa familiare può non essere assegnata alla mamma affidataria del bambino se questo ha trovato un "habitat" favorevole nell'abitazione del nuovo compagno di lei. Inutile anche il tentativo della donna di far revocare l'affido condiviso per il fatto che il padre parlava male dell'ex moglie e della suocera.
Gli sviluppi della vicenda? In primo grado il Tribunale di Velletri aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi e affidato alla madre il figlio della coppia, imponendo al marito la corresponsione di 400 euro per il mantenimento dello stesso. Tuttavia, non assegnava alla moglie, affidataria del bambino, la casa familiare. La Corte di appello di Roma, investita della questione, sentito il minore, respingeva l'appello principale della moglie ed, in accoglimento dell'appello incidentale del marito, addebitava la separazione alla prima ed affidava il figlio ad entrambi i genitori, confermando per il resto la gravata sentenza. Contro questa decisione la moglie proponeva ricorso per cassazione che veniva però rigettato. In riferimento ai motivi di ricorso proposti dalla moglie (omessa motivazione sul punto dell'assegnazione della casa familiare e omessa motivazione in tema di affidamento condiviso del minore), la Corte ha così confermato quanto stabilito dalla Corte di Appello (che ha "negato alla ricorrente l'assegnazione della casa coniugale, tenendo prioritariamente conto dell'interesse del minore come previsto dall'art. 154 quater c.c. e quale giustamente desunto dall'ascolto delle sue dichiarazioni sul rapporto con la coppia formata dalla madre e dal suo compagno e sulla permanenza presso di loro, e, dunque, su circostanze rilevanti ai fini della decisione sul suo affidamento, demandatagli dall'art. 155 c.c." e ha "statuito l'affidamento condiviso del figlio per ragioni ampiamente ed irreprensibilmente chiarite, alle quali la (moglie) oppone circostanze che non emergono dalla pronuncia e che o non avvalora con specifici richiami a pregresse risultanze istruttorie o che appaiono non decisive sia pure in ordine alla permanenza della particolare conflittualità riscontrata dai S.S. nel corso del primo grado del giudizio e recepita dal primo giudice a sostegno della decisione di affidamento del figlio alla sola madre"). Sentenza n. 1787/2012

Cassazione: maxi mantenimento alla moglie se lui si trasferisce in una grande città

Andare a vivere in una grande città può comportare vantaggi per un professionista ma c'è anche il rischio di dover pagare un maxi mantenimento alla ex moglie e ai figli se si è separati. È quanto emerge da una sentenza della Corte di Cassazione secondo cui la città è certamente fonte di maggiori guadagni. Esistono infatti "sviluppi prevedibili" per la carriera che giustificano in caso di separazione un aumento del mantenimento per la ex moglie e per i figli. La decisione è della prima sezione civile della Corte (sentenza n. 785/2012) che ha confermato la legittimità dell'aumento del mantenimento che un professionista dovrà pagare proprio per il fatto di essersi trasferito da un piccolo centro a una città più grande. Secondo la Suprema Corte, è corretta dunque la decisione dei giudici di merito che non solo avevano alzato il mantenimento in favore della ex moglie ma avevano anche disposto un assegno mensile per i figli di 5000 euro al mese. Inutilmente il professionista ha tentato di difendersi in Cassazione chiedendo di alleggerire il suo impegno economico. La Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo che "lo spostamento da una piccola localita' ad una citta' piu' grande integra sviluppi prevedibili". Nella fattispecie peraltro la cassazione mette in evidenza un elemento di novità che poteva essere costituito dalla convivenza more uxorio della donna con un facoltoso avvocato. Il problema però è che di questo non è stata fornita alcuna prova.

Cassazione: Via libera al controllo delle mail aziendali dei dipendenti

Arriva il via libera dalla Corte di Cassazione al controllo delle mail aziendali. Secondo i giudici di Piazza Cavour infatti si può controllare la posta elettronica del dipendente purché i controlli siano finalizzati a trovare riscontri a comportamenti illeciti del dipendente. Sulla scorta di tale principio la corte ha convalidato il licenziamento per giusta causa irrogato a un dirigente bancario che aveva divulgato tramite posta elettronica ad estranei notizie riservate relative a un cliente. Grazie a tali notizie aveva posto in essere operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggi personali.
L'istituto di credito aveva eseguito controlli sulle e-mail del dirigente e ne era seguito il licenziamento. Secondo la Cassazione questi controlli non ledono la dignità e la riservatezza del lavoratore ma attenzione: non sono ammessi tutti i tipi di controllo. Vanno esclusi, spiega la Corte, i controlli per verificare "l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro". Insomma si possono solo eseguire controlli destinati "ad assertare un comportamento che pone in pericolo l'immagine" dell'azienda presso terzi. Il dirigente ha tentato di difendersi in Cassazione sostenendo che quel controllo effettuato dal datore di lavoro era contrario allo statuto dei lavoratori e all'articolo 114 del decreto legislativo 196 del 2003 in materia di salvaguardia dei dati personali. La sezione lavoro della Corte, con sentenza numero 2722/2012 ha però respinto questa tesi difensiva e ha osservato che nel caso in questione "il datore di lavoro ha posto in essere una attivita' di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti, ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti poi effettivamente riscontrati". Secondo Piazza Cavour si è trattato di un controllo "difensivo" che non riguardava l'adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro "ma era destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo l'immagine dell'istituto bancario". In linea generale la possibilità di effettuare questi controlli "si ferma davanti al diritto alla riservatezza del dipendente al punto che la pur insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non puo' assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignita' e riservatezza del lavoratore".

Cassazione: sì all'assegno di mantenimento in favore di figlio ed ex moglie che lavora al call center anche se ex marito è malato.

Legittimo il sostentamento, sia pur ridotto, da parte dell'uomo nei riguardi della ex moglie e del figlio, in virtù delle precarie condizioni economiche della donna, la quale presta servizio presso un call center percependo solo tre euro l'ora. Questo il contenuto della sentenza 2275, depositata il 16 febbraio 2012, con cui la Corte di Cassazione, un procedimento di separazione giudiziale, ha rigettato il ricorso di un uomo che si doleva dell'aumento dell'assegno di mantenimento in favore della ex moglie e del figlio. In particolare, l'uomo aveva lamentato la violazione dell' art. 156 c. c., 115, 116 c.p.c.. Secondo l'ex marito, la Corte d'appello aveva ridotto l'assegno di mantenimento della moglie sul presupposto dell' insufficienza dei redditi di questa a consentirle un adeguato tenore di vita, mancando di considerare la sua capacità reddituale, l'utilità conseguita dall'assegnazione a titolo gratuito della casa coniugale e il suo stato di malattia. Rigettando il ricorso dell'uomo, la Corte ha spiegato che la Corte di merito "ha adeguatamente motivato circa le condizioni economiche della moglie, con riferimento all'istruttoria espletata, dalla quale è emerso che essa ha difficoltà a reperire un'occupazione adeguatamente remunerativa, percependo attualmente una retribuzione di tre euro l'ora da un "call center", a fronte di un reddito del ricorrente, netto annuo, di euro 21.345,00 nel 2003, 23.497,00 nel 2004 e 24.207,00 nel 2005".
Sentenza n. 2275/2012

Cassazione: legittimo il licenziamento del dipendente che usa i beni dell'ufficio per interessi privati

"E' esclusa la proporzionalità del licenziamento ove la condotta del lavoratore, se pure in contrasto con obblighi imposti dal contratto di lavoro, non determini il blocco del lavoro o un grave danno per l'attività produttiva, tenuto anche conto delle modalità del rapporto e della mancanza di precedenti disciplinari. Ma, nella specie, la configurazione di una proporzionalità della sanzione irrogata muove dalla considerazione di molteplici circostanze tenuto conto, in particolare, della evenienza dell'uso, fatto dal lavoratore, dei beni della scuola in maniera del tutto incompatibile con la destinazione loro propria."
". E' quanto affermato dalla sentenza n. 2014/2012 con cui la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di un lavoratore, ha ribadito, come da consolidata giurisprudenza, che "in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.". Il caso vede come protagonista un dipendente di un Comune con mansioni di portiere custode di una scuola elementare licenziato per aver svolto duplice attività lavorativa incompatibile con lo status di dipendente pubblico e per aver utilizzato, in tale attività, locali, strumenti e spazi in uso per ragioni di servizio. In particolare l'accusa rivolta al lavoratore è di "aver fornito preventivi e altre informazioni su interventi di tipo biologico e derattizzazioni per la ditta intestata alla figlia e poi trasferita a un terzo, utilizzando il numero telefonico dell'alloggio della scuola, che compariva pure sulle fiancate di vetture rinvenute nel cortile dell'edificio scolastico.".

Cassazione: reato lo spinello di gruppo

Chi detiene sostanze stupefacenti che non sono destinate ad uso esclusivamente personale è sempre punibile penalmente. Lo afferma la quarta sezione penale della Corte di Cassazione che si è occupata di un caso di "utilizzo di gruppo". Con la sentenza 6374/2012 la Corte ha convalidato una condanna inflitta a tre ventenni spiegando che "non puo' piu' farsi rientrare nella ipotesi di uso esclusivamente personale il cosiddetto uso di gruppo, giacche' l'acquisto per il gruppo implica 'ex se' che la droga non sia destinata ad uso eslcusivamente personale".
Nella sentenza gli ermellini spiegano che è "penalmente rilevante e quindi punibile la detenzione di sostanze stupefacenti destinata al cosidetto uso di gruppo perche' l'irrilevanza penale dopo l'intervento normativo della legge 49 del 2006 attiene solo all'uso personale". L'attuale quadro legislativo - spiega la Corte - non consente dunque di "fare rientrare nell'ipotesi di uso esclusivamente personale la fattispecie di 'uso di gruppo' all'interno della quale e' inclusa sia l'ipotesi di un gruppo di persone che da' mandato ad una di esse di acquistare droga, sia l'altra ipotesi in cui l'intero gruppo procede all'acquisto di droga, destinata al consumo collettivo". L'intenzione del legislatore, si legge nella sentenza, è diretta a "inibire, in un modo piu' severo, ogni attivita' connessa al traffico di sostanze stupefacenti, tant'e' che ha equiparato ogni tipo di droga, eliminando la distinzione tabellare preesistente". In questo modo la quarta sezione penale si discosta però da recenti indirizzi dei colleghi della sesta sezione penale che invece considerano "non punibile il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nell'ipotesi del mandato all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori, e nella certezza originaria dell'identita' degli altri, anche dopo le modifiche apportate dalla legge 49 del 2006".

Figli maggiorenni. La Cassazione ribadisce: vanno mantenuti fino a indipendenza economica

In tema di mantenimento del figlio, con sentenza n. 1773/2012, depositata lo scorso 8 febbraio, la Corte di Cassazione ha ribadito ancora una volta che sussiste il diritto al mantenimento del figlio anche maggiorenne che non ha ancora raggiunto l'indipendenza economica. In particolare, la Corte (prima sezione civile), confermando l'ormai consolidato orientamento in materia (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830; 11 gennaio 2007, n. 407), ha spiegato che l'obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio abbia raggiunto l'indipendenza economica, ovvero sia stato posto nella concreta condizione di poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta.
L'età da sola, ha sottolineato, infine, la Corte, non esclude in modo automatico il diritto al mantenimento. La vicenda processuale, terminata con la sentenza in commento, nasce da un procedimento per modifica delle condizioni di separazione. In particolare, la Corte di Appello di Venezia confermava il provvedimento del Tribunale di Venezia, in punto di assegnazione della casa coniugale ed assegno per la moglie. Su ricorso per cassazione proposto dalla moglie, (che lamentava violazione degli artt. 147, 155 c.c., nonché 710 c.p.c. e in particolare l'affermazione del Giudice a quo per cui la figlia delle parti di 35 anni non avrebbe più alcun diritto al mantenimento), la Suprema Corte ha confermato l'orientamento in materia e, accogliendo il ricorso della moglie, ha quindi stabilito che sussiste il diritto al mantenimento del figlio economicamente non autosufficiente, anche se maggiorenne. Sentenza n. 1773/2012

Cassazione: anche marito fedifrago può chiedere separazione affermando che il proprio tradimento ha condotto alla intollerabilità della convivenza

La Corte di Cassazione fa il punto sull'evoluzione giurisprudenziale in tema di separazione giudiziale ed evidenzia come i giudici siano sempre meno disposti ad addebitare le colpe per il fallimento del matrimonio ad uno dei coniugi. Anche se il presupposto per dichiarare la separazione giudiziale è costituito dalla intollerabilità della convivenza non è detto che chi chiede la separazione debba necessariamente fare riferimento al comportamento dell'altro coniuge ben potendo riferire dette intollerabilità a fatti a se stesso addebitabili, come il tradimento.
Sta di fatto che il matrimonio finisce anche quando uno solo dei coniugi si disaffeziona al di là della violazione dei doveri coniugali dato che non tutte le violazioni sono la causa della fine delle nozze. Il chiarimento arriva dalla prima sezione civile della Corte (sentenza n.2274/2012) che si è occupata del caso di una coppia in cui il marito da diversi anni era andato a vivere con un'altra donna dalla quale ha avuto anche un figlio. La donna si era opposta alla separazione sostenendo che nonostante il tradimento di suo marito mancavano i presupposti per dichiarare l'intollerabilità della convivenza e la separazione giudiziale dato che lei aveva tollerato il comportamento del marito.
Una tesi che non ha fatto breccia davanti alla Suprema Corte che, al contrario, ha condiviso le argomentazioni dei giudici di merito secondo cui "la disponibilita' unilaterale della moglie a sopportare tale situazione non puo' valere ad impedire la sussistenza della intollerabilita' della convivenza tra i coniugi, che costituisce il presupposto della pronuncia di separazione giudiziale, intollerabilita' strettamente collegata all'esistenza di una nuova famiglia". La Corte in particolare ricorda come in materia di separazioni "nessuna differenza e' posta tra coniuge colpevole o incolpevole, se di 'colpa' si deve ancora parlare, e pertanto anche il coniuge colpevole puo' chiedere la separazione, affermando che proprio il suo comportamento ha condotto all'intollerabilita' della convivenza". Insomma per dichiarare la separazione "non e' piu' necessaria la sussistenza di una situazione di conflitto riconducibile alla volonta' di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale di una delle parti, tale da rendere per lei intollerabile la convivenza verificabile in base a fatti obiettivi emersi, compreso il comportamento processuale con particolare riferimento al tentativo di conciliazione". Aggiunge infine la Corte che al di là della sopportazione della moglie lui aveva comunque dimostrato disaffezione per la vita matrimoniale.

Cassazione: genitori debbono sempre verificare se figli dicono la verità

I genitori non devono avere una fiducia incondizionata nei confronti dei loro figli e devono sempre verificare i fatti che riferiscono. L'avvertimento arriva dalla Corte di Cassazione che ha convalidato una condanna al risarcimento dei danni in favore di un'insegnante di una scuola elementare. L'insegnante aveva subito una diffamazione perché in due lettere indirizzate al dirigente scolastico e al provveditore agli studi di Bologna i genitori di un bambino avevano affermato, contrariamente al vero, che la docente aveva ripetutamente percosso ed umiliato il loro figlio.
I due genitori avevano diffuso la notizia anche su un noto quotidiano per denunciare le presunte vessazioni dell'insegnante. I giudici di merito evidenziavano in tale comportamento una "volonta' di ritorsione nei confronti dell'insegnante che successivamente all'episodio riferito dal minore gli aveva impartito una nota per mancato espletamento dei compiti di fine settimana". Anche se il reato è caduto in prescrizione la suprema Corte con la sentenza 5935/2012 ha confermato La condanna al risarcimento dei danni siegando che i genitori sono colpevoli di non aver fatto una "verifica informale e preventiva della veridicita' dei fatti riferiti dal minore", fidandosi del suo racconto. Per questo, spiega la Corte, "pur dovendosi riconoscere che l'adempimento degli obblighi genitoriali di protezione del figlio poteva giustificare l'adozione di iniziative atte a sollecitare un chiarimento circa l'accaduto, al contempo non puo' omettersi di rimarcare che la formalizzazione di una denuncia scritta indirizzata non soltanto al dirigente scolastico ma anche al provveditore agli studi, avrebbe dovuto essere quanto meno preceduta da una verifica informale della veridicita' dei fatti riferiti dal minore".

Cassazione: legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore in malattia assente alle visite domiciliari

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 2003 del 13 febbraio 2012, ha affermato la legittimità del licenziamento disciplinare del lavoratore in malattia, assente alle visite domiciliari di controllo e che invia i certificati medici oltre il termine previsto. La Suprema Corte, rigettando il ricorso proposto dal dipendente - che in entrambi i primi gradi di giudizio si era visto respingere la domanda volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli -, precisa che la motivazione della Corte territoriale, che ha affermato come il comportamento complessivamente tenuto dal lavoratore dimostrava la sua "pervicace volontà intenzionalmente mirata a pregiudicare l'interesse datoriale ad esser posto in condizione di effettuare un'adeguata verifica dello stato di malattia del dipendente assente" e quindi idoneo ad incrinare il vincolo fiduciario, appare persuasiva e coerente con i dati processuali.
La Corte di appello - evidenziano i giudici di legittimità - con motivazione congrua e logicamente coerente ha valutato il comportamento tenuto dal ricorrente di tale gravità da ledere il vincolo fiduciario tra le parti stante la reiterazione dei fatti in un breve arco di tempo e l'assenza di credibili giustificazioni da parte del lavoratore.

Cassazione: i Prof debbono controllare la sicurezza delle stanze degli alunni in gita

Esiste un obbligo di diligenza preventivo per i Prof che accompagnano gli studenti in gita scolastica e tale dovere impone loro di trovare alberghi sicuri. È quanto afferma la Corte di Cassazione (sentenza sentenza n. 1769/2012) precisando peraltro che gli insegnanti devono anche controllare le singole stanze dove alloggiano i ragazzi perché se qualcuno si fa male c'è il rischio di una condanna per risarcimento danni. Nel caso esaminato da Piazza Cavour una studentessa si era ferita gravemente scivolando da una terrazza dell'albergo dove alloggiava durante una gita scolastica.
La ragazza era salita su un parapetto del balcone della stanza ed aveva raggiunto la terrazza insieme ad un amico. Era poi scivolata e precipitata per circa 12 metri con lesioni che la rendevano invalida. Il caso finiva in Tribunale con una richiesta di risarcimento dei danni sia nei confronti del Ministero della pubblica istruzione sia nei confronti dell'albergo sia nei confronti dell'istituto scolastico. Nella domanda i genitori della ragazza denunciavano la "mancanza di controllo e di sorveglianza degli alunni da parte del professore in gita con la classe e mancanza di sicurezza dell'albergo". Sia il tribunale sia la corte d'appello respingevano la domanda risarcitoria facendo rilevare che gli studenti erano prossimi alla maggiore età e dotati "di un senso del pericolo". Di diverso avviso la suprema corte che ha ribaltato le due sentenze ricordando che "proprio perche' il rischio che, lasciati in balia di se stessi, i minori possano compiere atti incontrollati e potenzialmente autolesivi, all'istituzione e' imposto un obbligo di diligenza per cosi' dire preventivo, consistente, quanto alla gita scolastica, nella scelta di vettori e di strutture alberghiere che non possano, al momento della loro scelta, ne' al momento della fruizione, presentare rischi o pericoli per l'incolumita' degli alunni". Secondo i giudici di piazza Cavour "incombe all'istituzione scolastica la dimostrazione di avere compiuto controlli preventivi e di avere impartito le conseguenti istruzioni agli allievi affidati alla sua cura e alla sua vigilanza". Nel caso di specie dunque i Prof avrebbero dovuto rilevare come dalle camere fosse troppo facile accedere al solaio di copertura ed adottare di conseguenza misure idonee come anche il rifiuto di alloggiare studenti in una stanza poco sicura.

Cassazione: legittimo il licenziamento irrogato prima del decorso dei cinque giorni se il lavoratore ha già svolto le sue difese

"Il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza del termine dì cui all'art. 7, 5° comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300, decorrente dal momento della ricezione della contestazione dell'addebito, quando il lavoratore ha esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive.". Questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 1884 del 2012, ha rigettato il ricorso proposto da un lavoratore avverso la sentenza con cui la Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la sua domanda, proposta nei confronti della società datrice di lavoro, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento intimatogli per assenza ingiustificata. A fondamento del decisum la Corte del merito rilevava, innanzitutto, che non vi era stata violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 in quanto il provvedimento di licenziamento era stato sì applicato prima del decorso dei cinque giorni previsti dal 5° comma del precitato art. 7, ma dopo che il lavoratore aveva svolto le proprie difese senza alcuna riserva di ulteriori motivazioni difensive. I Giudici di legittimità, richiamando la sentenza delle S.U. del 7 maggio 2003 n. 6900, ribadiscono che deve escludersi che la previsione di uno spazio temporale tra contestazione ed irrogazione della sanzione sia stata ispirata, oltre che dalla finalità di garantire al lavoratore il diritto di presentare le proprie giustificazioni, anche dall'intento di consentire al datore di lavoro un'effettiva ponderazione in ordine al provvedimento da adottare ed un possibile ripensamento.

Cassazione: trasporto, vettore responsabile anche quando si scende dall'autobus

Con la sentenza n. 666, depositata il 18 gennaio 2012, la Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di caduta del passeggero il vettore è responsabile anche nel tempo della discesa e della salita dal mezzo di trasporto. Secondo i giudici di Piazza cavour, deve applicarsi la presunzione di responsabilità di cui all'articolo 1681 c.c. che impegna la responsabilità del vettore per i sinistri che colpiscono là del viaggiatore se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno In sostanza, in tema di trasporto pubblico va tutelata l'incolumità del viaggiatore anche quando il passeggero è intento a scendere dal mezzo.
Questa responsabilità sussiste laddove l'azienda che gestisce il servizio non fornisca la prova liberatoria del fortuito: ne consegue che ben può configurarsi la garanzia assicurativa da parte della compagnia che copre anche le operazioni preparatorie e accessorie rispetto al viaggio. In precedenza i giudici di merito avevano respinto le richieste risarcitoria e non avevano applicato la presunzione di responsabilità di cui all'articolo 1681 avevano posto a carico dell'attore il regime probatorio ordinario in tema di responsabilità e non quello invertito previsto per il trasporto. Il caso veniva poi rinviato dalla Cassazione alla corte territoriale di Lecce che riesaminando il caso evidenziava come l'attrice avesse agito sia in base all'articolo 2043 del codice civile per responsabilità extra contrattuale sia in base all'articolo 1681 c.c. e tale esercizio cumulativo, proposto nella specie con una domanda subordinata all'altra, deve ritenersi consentito. In sostanza l'attrice aveva provato il nesso di causalità tra l'evento e il trasporto e la responsabilità doveva dunque essere addebitata al vettore che non aveva fornito la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento e che lo stesso fosse addebitabile a un fattore esterno o ad una condotta imprudente e negligente del viaggiatore.
Sentenza n. 666/2012

Cassazione: licenziamento, illegittimo il controllo occulto della prestazione lavorativa

La Corte di Cassazione con sentenza n. 1423 del 1 febbraio 2012 ha statuito che "il controllo occulto da parte di investigatori privati del datore di lavoro è legittimo solo ed in quanto sia finalizzato all'accertamento di illeciti a carico del patrimonio aziendale e non di meri inadempimenti contrattuali". Nel caso di specie la Corte di Appello, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di un lavoratore proposta nei confronti della società datrice di lavoro, di cui era stato dipendente con la qualifica d'informatore scientifico, avente ad oggetto l'impugnativa di alcune sanzioni disciplinari e del licenziamento intimatogli.
Relativamente al licenziamento, la predetta Corte, ne affermava l'illegittimità in quanto, esclusa l'utilizzabilità delle relazioni scritte degli investigatori privati in ragione dell'illiceità del relativo controllo occulto, i fatti contestati non erano risultati provati. I giudici di legittimità, rigettando il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, affermano che la Corte d'Appello ha accertato che il controllo di cui si discute era appunto diretto alla verifica dell'esattezza dell'adempimento della prestazione lavorativa fornita e quindi illegittimo, precisando inoltre che spetta al giudice del merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, mentre al giudice di legittimità non è conferito il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito.

Cassazione: assegno divorzile non aumenta se è aumentato il canone di locazione della casa familiare

L'assegno di divorzio non aumenta solo perché è aumentato il canone di locazione della casa familiare. È quanto stabilito dalla prima sezione civile della Corte di cassazione che, con sentenza n. 1337 depositata il 31 gennaio scorso, ha rigettato il ricorso di una donna che si era vista ridurre l'assegno divorzile nonostante il notevole aumento del canone di locazione della casa familiare a lei assegnata in sede di separazione. Secondo i giudici di legittimità, non vi è correlazione fra il canone di locazione e l'obbligo dell'ex marito di mantenere la moglie e i figli.
Tale impostazione era stata già confermata dalla Corte di Appello di Roma che aveva rigettato l'appello della donna che si era rivolta poi ai Supremi giudici. Secondo la ricostruzione della vicenda, la Corte d'Appello di Roma, con sentenza, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma, riduceva l'assegno divorzile a favore della ex moglie all'importo 1.000,00 euro mensili. Ricorrendo in Cassazione la donna faceva notare che la sentenza impugnata avrebbe "escluso", a causa dell' assegno liquidatole, il suo diritto di vivere nella casa coniugale di Roma. Dichiarando il ricorso infondato, la Suprema Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la decisione dei giudici di merito che nalla fattispecie hanno esaminato le condizioni economiche delle parti, e specificamente i mezzi di cui ciascun coniuge dispone. "Secondo il Giudice a quo - si legge nella sentenza - l'assegno divorzile non deve essere correlato al pagamento del canone di locazione, notevolmente accresciuto, della casa coniugale in Roma, dove ha finora vissuto (la donna), considerato anche, ai fini della determinazione dell'assegno, la disponibilità, per essa stessa, di un'abitazione in Fabrica di Viterbo, in comproprietà con il coniuge, dove — ove lo ritenesse — essa potrebbe abitare".
Sentenza n. 1337/2012

Cassazione: salario non adeguato alle prestazioni? Scatta la condanna per estorsione

 Il datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con una larvata minaccia di licenziamento, ad accettare un salario inadeguato rispetto al lavoro svolto e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi e ai contratti collettivi, va condannato per il reato di estorsione. E' questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 4290 del 1° febbraio 2012, ha rigettato il ricorso di un datore di lavoro, indagato per estorsione, con il quale richiedeva la revoca degli arresti domiciliari.
Nel caso di specie, al momento della corresponsione del salario, i lavoratori, da una parte, dovevano firmare una quietanza corrispondente all'importo della busta paga e, dall'altra, dovevano poi restituire in contanti la differenza pena l'immediato licenziamento ed il concreto pericolo di non poter più trovare lavoro presso altri imprenditori a seguito delle pressioni fatte dall'indagato affinché non li assumessero. Le modalità sia dell'assunzione (pagamento inferiore a quello contrattuale), sia delle modalità con le quali veniva corrisposto il salario, configurano - si legge nella sentenza - da una parte, l'elemento oggettivo della minaccia (o il lavoratore accettava non solo di essere sottopagato ma anche di firmare una quietanza per una somma superiore della quale, poi, doveva restituire la differenza, oppure non veniva assunto o, se assunto, veniva licenziato) sia l'elemento dell'ingiusto profitto da parte dell'indagato che, con le suddette modalità, non solo otteneva che i dipendenti lavorassero per lui sottopagati ma anche si tutelava dalle eventuali azioni civilistiche dei lavoratori tese ad ottenere quanto loro dovuto. Giusti dunque gli arresti domiciliari per l'imprenditore motivati dal timore dell'inadeguatezza delle misure meno afflittive a garantire che il soggetto non intervenisse ancora su persone che erano parte della sua passata o presente vita aziendale.

Cassazione: illegittimo il licenziamento per troppe assenze se la contestazione è tardiva

"In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, deve escludersi che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione delle gravità dei fatti, ciò non escludendo, tuttavia, che il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva possa essere individuato anche in uno solo di essi, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dalla legge."
". E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 1062 del 25 gennaio 2012, ha rigettato il ricorso proposto da un'azienda - che aveva licenziato una propria dipendente per ripetute assenze in giorni successivi a festività o ferie e recidiva - avverso la decisione della Corte d'Appello la quale aveva ritenuto la recidiva erroneamente contestata alla lavoratrice, tenuto conto del principio, consolidato nella giurisprudenza, alla cui stregua, il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto, a norma dell'ultimo comma dell'art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, di tenere conto della sanzione eventualmente applicata, entro il biennio. I Giudici di legittimità precisano, richiamando precedenti decisioni, che in difetto di contestazione di una nuova infrazione il datore di lavoro non può riesaminare in sede disciplinare le precedenti mancanze, già colpite ciascuna da sanzioni di tipo conservativo, per applicare per quelle stesse infrazioni, sia pure unitariamente considerate, una più grave sanzione di carattere espulsivo. La contestazione della recidiva per precedenti comportamenti già puniti con una sanzione disciplinare, in assenza di un'autonoma infrazione attualmente sanzionabile, non vale a legittimare il recesso del datore di lavoro.

Mobbing, ancora un chiarimento dalla Cassazione

La Corte di Cassazione con la sentenza, la n.87 del 10 gennaio 2012, mette in evidenza quali sono gli elementi per poter considerare alcune condotte come mobbing. Innanzitutto la Corte ricorda che quando si parla di mobbing si fa riferimento a delle condotte sistematiche e protratte nel tempo, a sistematici reiterati comportamenti ostili nei confronti del lavoratore che finiscono per diventare delle vere e proprie forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica. Si tratta di comportamenti che secondo la Corte possono condurre ad una mortificazione morale e ad un'emarginazione del lavoratore andando a ledere il suo equilibrio psicofisico.
La sentenza contribuisce a chiarire ulteriormente il concetto di mobbing dato che gli ermellini indicano in dettaglio quali sono gli elementi necessari perché si possa parlare di mobbing. Il primo degli elementi è l'accertamento di una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio. Il secondo è l'accetamento di un danno alla salute di chi è vittima di mobbing e i terzo è l'esistenza di un nesso di causalità tra il comportamento persecutorio e il danno all'integrità psico-fisica del lavoratore. Natualmente ci vogliono le prove che, se sussistono, danno diritto alla parte danneggiata ad ottenere il risarcimento del danno subito. Nel caso esaminato dalla Corte sono stati esclusi gli estremi del mobbing perché, secondo quanto accertato dai giudici di merito, la vicenda lavorativa si era sviluppata nei limiti della normalità "atteso che il rapporto di lavoro si era svolto secondo modalità congrue rispetto alla natura delle prestazioni, alle obbligazioni reciproche ed agli interessi delle parti contrattuali". In particolare nella sentenza della corte d'appello si era sottolineato "da un lato, che non poteva ravvisarsi, nel caso di specie, un nesso causale fra la patologia psichica da cui era risultato affetto il lavoratore ed il disagio derivante dall'ambiente lavorativo, e, dall'altro, che non era nemmeno possibile individuare i soggetti responsabili dell'allegato mobbing con riferimento a comportamenti specifici e rilevanti". Nella parte motiva della sentenza (qui sotto allegata) la Corte fra diversi richiami a decisioni precedentemente adottate.

Cassazione: ente proprietario paga danni a chi cade dalle scale anche se non c'è colpa o pericolo

In tema di cose in custodia, con sentenza n. 27898, depositata il 21 dicembre 2011, la terza sezione civile ha stabilito che il Comune è tenuto a risarcire il soggetto che cade dalle scale di proprietà di un edificio di proprietà del comune è tenuto a risarcire il soggetto a prescindere dall'accertamento colposo del comportamento del custode dall'accertamento della pericolosità della cosa. La responsabilità per cose in custodia infatti ha natura oggettiva necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra bene ed evento.
È esclusa solo dal caso fortuito. Secondo la ricostruzione della vicenda che emerge dalla lettura della sentenza di legittimità, una donna conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma il Comune, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito di una caduta. Nel 1998, mentre percorreva la rampa di scale che dall'interno dell' edificio portava all'uscita, era scivolata su uno dei gradini, a causa della mancanza di illuminazione nonché dei detriti e dei calcinacci che imbrattavano il percorso. Nella contumacia del Comune, il giudice adito, con sentenza, rigettava la domanda. Proposto gravame dalla donna, la Corte d'appello, in riforma della decisione impugnata, condannava il comune al pagamento in favore della donna della somma di euro circa 20 mila euro, oltre interessi e spese. Su ricorso per cassazione proposto dal Comune di Roma che aveva contestato l'applicazione della presunzione di responsabilità, la Corte, rigettando il ricorso del Comune ha spiegato che "la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall'art. 2051 cod. civ., prescinde e dall'accertamento del carattere colposo del comportamento del custode e dall'accertamento della pericolosità della cosa, avendo natura oggettiva necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra bene ed evento, di talché essa sussiste, in definitiva, in relazione a tutti i danni. cagionati dalla ‘res', sia per la sua intrinseca natura, sia per l'insorgenza in essa di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito".
Sentenza n. 27898/2011