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domenica 3 febbraio 2013

Cassazione: non è obbligatorio anticipare la decorrenza dell'assegno alla data del divorzio

Con sentenza n.18708/2012 la Corte di Cassazione torna ad occuparsi dell'assegno di mantenimento in favore dell'ex coniuge prendendo in considerazione il momento a partire dal quale deve decorrere e i criteri sulla base del quale deve essere determinato.

La Corte ricorda che se si chiede l'anticipazione della decorrenza dell'assegno di mantenimento alla data di domanda di divorzio, "la retroattiva è comunque sempre a discrezione del giudice che, quindi, non è sempre tenuto a ordinare l'anticipazione, né la legge prevede che sia tenuto a disporla sulla semplice constatazione della particolare indigenza dell'avente diritto".

La pronuncia della Cassazione si riferisce a una sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Venezia in cui si riconosceva un assegno di mantenimento in favore di una donna divorziata la cui richiesta era stata precedentemente respinta dal Tribunale.

Al marito i giudici del primo grado avevano dato in affidamento il figlio minore e gli altri due figli avevano scelto liberamente di vivere con il padre, mentre la moglie rimasta anche senza il mantenimento si era rivolta in Appello chiedendo un assegno mensile a partire dal momento della domanda di divorzio trovandosi in stato di grave indigenza.

Verificato che la signora, alloggiata gratuitamente presso un'abitazione di proprietà della sorella, percepiva un reddito di 700 euro mensili e godeva di alcuni aiuti da parte dell'ASL per il suo grave stato di salute, ne veniva riconosciuta l'indigenza. Comparando la situazione economica di entrambi i coniugi la Corte d'Appello stabiliva che il marito dovesse versare 150 euro mensili senza alcun effetto retroattivo.

Ricorrendo in Cassazione la donna chiedeva la maggiorazione dell'importo mensile dell'assegno, in quanto la Corte d'Appello nel determinarlo aveva tenuto conto degli aiuti che le venivano forniti dall'ASL e del fatto che godesse dell'ospitalità gratuita della sorella, mentre le contribuzioni liberali da parte di terzi non devono sollevare l'ex coniuge dalla responsabilità del versamento dell'assegno nei confronti della parte economicamente più debole.

La ricorrente inoltre chiedeva che l'erogazione del mantenimento decorresse dalla data di domanda del divorzio, vista la sua particolare situazione di indigenza. Il marito C.R. a sua volta proponeva un controricorso asserendo che l'ex moglie fosse usufruttuaria dell'immobile in cui risiedeva.

La suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi. Riguardo l'importo mensile si è ricordato che la ricorrente avrebbe dovuto produrre documentazione atta a quantificare precisamente gli aiuti ricevuti da terzi, cosa che invece non è avvenuta. Inoltre ha ricordato che l'importo dell'assegno di mantenimento viene stabilito dal giudice tenendo conto sia della situazione di indigenza sia dell'esigenza di una vita dignitosa da parte dell'obbligato. Anche l'applicazione della retroattività al mantenimento dipende dalla discrezionalità del giudice che esamina attentamente le condizioni economiche del coniuge tenuto al versamento. Riguardo il ricorso presentato dall'ex marito invece non è stato prodotto alcun documento che provasse che la donna fosse usufruttuaria dell'appartamento della sorella.

Vai al testo della sentenza 18708/2012

Cassazione: vi sentite persi per una vostra ex? Non tartassatela con sms... ma con le e-mail!

Seccati perché una ex vi ha scaricato in malo modo (o semplicemente lo ha fatto e basta) e non ci dormite la notte? Se la fase del chiamo-non-chiamo ormai fa parte della preistoria, non fatevi però tentare troppo facilmente dal contattarla via sms. Facile cascarci perché in fondo costa meno sforzi rispetto alla classica (e preistorica appunto) telefonata, e si rischia molto meno a livello emotivo.

Ma in realtà l'innocuità degli sms è solo apparenza, perché come sancito dalla Cassazione stessa i "messaggini" possono essere fin troppo invasivi.

Ma come? Perché sono immediatamente leggibili (temo che gli ermellini non abbiano un iPone, la penserebbero molto diversamente, ndr). Meglio allora la posta elettronica, perché i messaggi per essere letti vanno aperti.

A questa conclusione è giunta la Quinta sezione penale della Corte Suprema, accogliendo così solo in parte il ricorso di un ufficiale della Marina, addetto alle comunicazioni radio. L'ufficiale durante una crociera aveva conosciuto una ragazza, con la quale aveva iniziato una storia, finita però male appunto. L'uomo, che era stato respinto dalla ragazza, aveva però iniziato a mandarle e-mail e sms, importunandola in maniera eccessiva. Tanto che la ragazza si era vista costretta a denunciarlo per molestie "telematiche".

La Corte d'Appello di Milano, nel febbraio 2012, aveva riconosciuto l'ufficiale colpevole per i reati di tentata violenza privata, molestie, accesso abusivo ad un sistema informatico e intercettazione di comunicazioni telematiche. Ed è a questo punto che l'uomo ha fatto ricorso in Cassazione, sottolineando tra le motivazioni (accolte dagli ermellini) che i messaggi inviati per posta elettronica non potevano assolutamente essere il mezzo per perpetrare molestie alla ex, potendo essere eliminati o filtrati, e comunque liberi di essere letti o meno.

I giudici di Piazza Cavour, con sentenza n. 44855, hanno accolto la parte di ricorso che riguardava le e-mail inviate alla ex, precisando che "il reato di molestie non si può verificare qualora si tratti di messaggi di posta elettronica privi, in quanto tali, del carattere della invasività".

Mentre gli sms secondo la Cassazione sono invasivi, eccome, perché sono inviati su utenze telefoniche mobili. La parola definitiva a riguardo la condanna dell'ufficiale spetterà alla Corte d'Appello di Milano, che, a seguito della sentenza della Cassazione, dovrà riconsiderare il caso. E rivedere molto probabilmente al ribasso la pena nei confronti dell'ufficiale respinto.

Siamo certi che l'ufficiale, con le future ex (!) eviterà accuratamente la telefonia mobile e prediligerà navigare... in rete!

Cassazione: vi sentite persi per una vostra ex? Non tartassatela con sms... ma con le e-mail!

Seccati perché una ex vi ha scaricato in malo modo (o semplicemente lo ha fatto e basta) e non ci dormite la notte? Se la fase del chiamo-non-chiamo ormai fa parte della preistoria, non fatevi però tentare troppo facilmente dal contattarla via sms. Facile cascarci perché in fondo costa meno sforzi rispetto alla classica (e preistorica appunto) telefonata, e si rischia molto meno a livello emotivo.

Ma in realtà l'innocuità degli sms è solo apparenza, perché come sancito dalla Cassazione stessa i "messaggini" possono essere fin troppo invasivi.

Ma come? Perché sono immediatamente leggibili (temo che gli ermellini non abbiano un iPone, la penserebbero molto diversamente, ndr). Meglio allora la posta elettronica, perché i messaggi per essere letti vanno aperti.

A questa conclusione è giunta la Quinta sezione penale della Corte Suprema, accogliendo così solo in parte il ricorso di un ufficiale della Marina, addetto alle comunicazioni radio. L'ufficiale durante una crociera aveva conosciuto una ragazza, con la quale aveva iniziato una storia, finita però male appunto. L'uomo, che era stato respinto dalla ragazza, aveva però iniziato a mandarle e-mail e sms, importunandola in maniera eccessiva. Tanto che la ragazza si era vista costretta a denunciarlo per molestie "telematiche".

La Corte d'Appello di Milano, nel febbraio 2012, aveva riconosciuto l'ufficiale colpevole per i reati di tentata violenza privata, molestie, accesso abusivo ad un sistema informatico e intercettazione di comunicazioni telematiche. Ed è a questo punto che l'uomo ha fatto ricorso in Cassazione, sottolineando tra le motivazioni (accolte dagli ermellini) che i messaggi inviati per posta elettronica non potevano assolutamente essere il mezzo per perpetrare molestie alla ex, potendo essere eliminati o filtrati, e comunque liberi di essere letti o meno.

I giudici di Piazza Cavour, con sentenza n. 44855, hanno accolto la parte di ricorso che riguardava le e-mail inviate alla ex, precisando che "il reato di molestie non si può verificare qualora si tratti di messaggi di posta elettronica privi, in quanto tali, del carattere della invasività".

 

Mentre gli sms secondo la Cassazione sono invasivi, eccome, perché sono inviati su utenze telefoniche mobili. La parola definitiva a riguardo la condanna dell'ufficiale spetterà alla Corte d'Appello di Milano, che, a seguito della sentenza della Cassazione, dovrà riconsiderare il caso. E rivedere molto probabilmente al ribasso la pena nei confronti dell'ufficiale respinto.

 

Siamo certi che l'ufficiale, con le future ex (!) eviterà accuratamente la telefonia mobile e prediligerà navigare... in rete!


Cassazione: Si può rilasciare la casa anche dopo il decorso dei 6 mesi indicati nell'avviso di recesso dal contratto di locazione.

Con la sentenza n. 18167 del 23 ottobre 2012, la Corte di cassazione ha affermato che l'affittuario è legittimato al rilascio della casa anche oltre i sei mesi dalla data di preavviso del recesso del contratto di locazione: egli ha la facoltà di comunicarlo anche successivamente all'invio della relativa comunicazione priva di tale indicazione.

La terza sezione civile della Corte, in dettaglio chiarisce che il conduttore ha facoltà di comunicare successivamente la data di esecuzione e ribadisce «in tema di locazione di immobili urbani, qualora le parti abbiano previsto, ai sensi dell'art.

27 della legge 392/78, la facoltà del conduttore di recedere in qualsiasi momento dal contratto dandone avviso al locatore mediante lettera raccomandata, almeno sei mesi prima della data in cui il recesso deve avere esecuzione, l'avviso di recesso diretto dal conduttore al locatore, che indichi un termine inferiore a quello convenzionalmente stabilito dalle parti stesse o inferiore a quello minimo fissato dalla legge, conserva validità ed efficacia ma il termine di esecuzione deve essere ricondotto a quello convenzionalmente pattuito o a quello minimo semestrale fissato dalla legge».

Inoltre, che «il ritardato rilascio rispetto alla data indicata, può essere fatto valere sotto altri profili, ma non invalida il recesso e che, in base all'articolo 27 della legge 27 luglio 1978, n. 392, la ritenuta superfluità della indicazione della data in cui il recesso deve avere esecuzione e l'affermata facoltà del conduttore di comunicarla anche successivamente all'invio della relativa comunicazione priva di tale indicazione». Pertanto, il ricorso è stato respinto.

Altri dettagli nel testo integrale della sentenza qui sotto allegato

Vai al testo della sentenza 18167/2012

Cassazione: infortunio sul lavoro, responsabilità dell'appaltatore anche se manca la segnalzione dei rischio da parte del committente

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 43814 del 12 novembre 2012, ha ribadito che "in tema di prevenzione sugli infortuni sul lavoro è sempre la responsabilità dell'appaltatore, potendosi ravvisare anche quella del committente qualora l'evento si ricolleghi casualmente ad una sua omissione colposa". Nel caso di specie, la Suprema Corte, dichiarando inammissibile i ricorsi presentati da due imputati - uno nelle qualità di rappresentante legale e l'altro di socio e responsabile tecnico di un'impresa appaltatrice, ai quali era stato contestato di avere cagionato per colpa e per inosservanza della disciplina antinfortunistica ad un dipendente lesioni personali gravissime, in quanto, mentre si trovava sopra un soppalco per eseguire rilevamenti dimensionali, cadeva dallo stesso a causa del cedimento di uno dei pannelli, precipitando al suolo da un'altezza di circa sette metri, procurandosi in tal modo le sopra indicate lesioni - ha evidenziato come la Corte d'Appello aveva correttamente affermato che "l'impresa appaltatrice, nel momento in cui si apprestava ad espletare l'opera commisionatale, anche se solo per effettuare delle misure propedeutiche al montaggio dei pannelli, aveva l'obbligo di adottare sul luogo di lavoro tutte le misure di sicurezza imposte dalla legge a tutela dell'incolumità dei lavoratori, obbligo che incombe al datore di lavoro e su quanti siano preposti alla direzione tecnica dell'azienda e che non può essere annullato da eventuali censure nei confronti di altre società, quali la committente, per la omessa segnalazione della situazione di pericolo".

I Giudici di legittimità affermano inoltre che "in tema di prevenzione infortuni, se il datore di lavoro è una persona giuridica, destinatario delle norme è il legale rappresentante dell'ente imprenditore, quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive, così che la sua responsabilità penale, in assenza di valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno di mansioni tecniche, attesa la sua qualità di preposto alla gestione societaria.".


Cassazione: va dichiarata adottabilità se genitori compromettono sviluppo fisico ed equilibrio psicologico del minore

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 18563 del 29 ottobre 2012 ha stabilito che può essere dichiarato lo stato di abbandono di un minore e la sua adottabilità solo se, per il fatto di entrambi dei genitori, è stato compromesso lo sviluppo fisico e l'equilibrio psicologico del minore.

Nel caso preso in esame dai giudici di Piazza Cavour, vi era stato un intervento dei carabinieri nella casa di due coniugi. La richiesta era partita dal marito il quale sosteneva che la moglie era intenzionata ad uccidere il loro figlio minorenne.

I rappresentanti dell'ordine costatavano la confusione mentale della donna che però era stata picchiata del marito. Veniva quindi decisa la sottrazione del minore ai genitori ed il suo collocamento in una struttura protetta ed adeguata. Successivamente il minore veniva, insieme alla madre, sistemato in un altro complesso pubblico.

In seguito alla condanna del marito per maltrattamenti, la moglie lasciava, dopo un anno la struttura, senza portare con se il minore. Il tribunale, dopo avere l'espletamento di consulenze tecniche, dichiarava adottabile il minore.

I due genitori, si rivolgevano a questo punto alla Corte di Appello di Milano che rigettava i gravami spiegando che il padre, ancora agli arresti, proponeva un collocamento inadeguato del minore presso una altra sua figlia che oltre tutto non aveva mai conosciuto e frequentato il fratello e che soprattutto non poteva offrire un contesto familiare adatto alla crescita del minore.

L'impugnazione della madre veniva respinta in quanto presentata in ritardo.

Nel caso di specie i giudici di merito rilevavano peraltro che la situazione psicologica e le carenze genitoriali di entrambi i genitori non erano di breve durata. La madre non sarebbe risultata in grado di soddisfare i bisogni primari del figlio e tanto meno di garantirgli affetto ed attenzione. Anche il padre manifestava carente genitoriali e di personalità non solo nei confronti del minore conteso ma anche nei confronti di altri figli avuti in seguito ad altre relazioni.

Da ultimo è stato evidenziato che la madre dovendo seguire un percorso terapeutico alquanto lungo, non era nelle condizioni di occuparsi del minore che aveva necessità immediata di un nucleo familiare, di qui la conferma di adottabilità.

Il caso finiva dinanzi alla Corte di Cassazione che con la sentenza n. 18653 / 2012 ha ricordato che si può parlare di stato di abbandono di un minore e quindi della sua adottabilità nel caso in cui entrambi i genitori naturali risultano responsabili di danni irreversibili allo sviluppo sia fisico che psicologico del figlio minore.

La Suprema Corte ricorda inoltre che i genitori affetti da patologie mentali, anche di origine non temporanee, non sono obbligatoriamente da considerare inadatti al ruolo genitoriale ed ha sottolineato l' importanza di dover tutelare il minore garantendogli la possibilità di crescere con i genitori biologici, soprattutto quando uno o entrambi i genitori si mostra disponibile a seguire un percorso psicologico finalizzato a tale scopo.

La Corte di Cassazione ha inoltre rilevato una contraddizione nella sentenza di merito, seconda la quale, da un lato si riconosce alla madre la capacità di recuperare le sue capacità genitoriali seguendo un percorso psicologico tale da permettere di nuovo l'inserimento del figlio nel contesto materno, e dall'altro si dichiara l'adottabilità del minore dettata dalla necessità di dargli velocemente un nucleo familiare dove crescere.

E così la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal padre e accolto quello della madre che ha nella sua difesa ha evidenziato come in realtà le era stata riconosciuta la capacità di recuperare nel tempo le attitudini genitoriali.

La donna si è opposta all'adottabilità del figlio in quanto i giudici di merito non avrebbero tenuto conto della relazione del consulente tecnico d'ufficio, non avrebbero valutato il suo comportamento dopo l'abbandono del figlio, le avrebbero rifiutato una successiva CTU e avrebbero violato l'articolo 8 della legge 184 del 1983 relativamente alla richiesta di affido del minore al nonno considerandola fatta in ritardo.

La Corte di Cassazione ha quindi rinviato la sentenza alla Corte di Appello di Milano che dovrà, alla presenza di con un'altra commissione, applicarla senza incorrere nuovamente nei vizi evidenziati nella stessa.
Vai al testo della sentenza 18563/2012

Cassazione: la ex ha rovinato il rapporto con i vostri figli? Scatta il risarcimento danni

Ogni tanto, è il caso di dirlo, la giustizia premia anche i papà che soffrono per la separazione dai propri figli, causa rottura del rapporto con una ex quanto mai vendicativa. Non solo dunque papà sbollettati dalle incalzanti esigenze economiche della ex, ma anche papà privati del piacere di veder crescere la propria progenie.

Una sofferenza che la Cassazione ha prontamente riconosciuto e "premiato", nel vero senso della parola, con un risarcimento per i danni subiti da lui e posti a carico della ex-moglie.

La vicenda giudiziaria della coppia era iniziata nel 2003, con la loro separazione, sancita dal Tribunale di Mantova con sentenza del 2007. Il giudice aveva disposto l'affidamento congiunto della loro unica figlia, nata nel 1996, oltre che al pagamento da parte del padre di un assegno di mantenimento e della metà delle spese sostenute dalla madre per la figlia.

Il Tribunale però aveva preso anche una decisione assolutamente straordinaria: alla donna sarebbe toccato infatti sborsare parecchie migliaia di euro per il marito e persino di più per la figlia. Più esattamente 15mila euro per lui e 20mila per la bambina, e questo per aver volutamente intralciato e danneggiato il rapporto tra padre-figlia, causando in quest'ultima la sindrome da alienazione genitoriale (PAS, parental alienation syndrome). Sindrome emersa dall'osservazione della bambina da parte di psicologi specializzati. La madre aveva manifestato una acredine tale nei confronti dell'uomo, tanto da accusarlo anche di aver abusato della minorenne; accusa che si era poi rivelata falsa, e che avrebbe potuto spingere il marito a querelare la ex.

La donna però non aveva gradito la condanna al risarcimento dei danni disposta dal giudice di primo grado e si era quindi rivolta in appello, con risultati non proprio sperati. I giudici della Corte d'appello di Brescia avevano infatti annullato il risarcimento dovuto alla figlia, ma non quello dovuto al padre. Unica consolazione: l'importo era stato ridotto a 10mila euro.

Da qui la decisione di tentare la via della Cassazione, puntando su varie motivazioni. A partire dalla mancata diagnosi di PAS da parte di uno psichiatra, medico ben più autorevole, a detta della donna e dei suoi legali, di un semplice psicologo. O dal non aver chiamato a testimoniare la minore, sino all'aver ribaltato le carte sostenendo di essere lei stessa vittima di soprusi da parte dell'uomo e dei suoi familiari.

La Prima sezione civile della Cassazione, con sentenza 7452/2012, ha respinto il ricorso della donna, confermando così il suo obbligo a risarcire il padre.

 

Cassazione: infortunio mortale sul lavoro, vanno risarciti i conviventi anche se non parenti


 
"In linea generale è da ritenere legittima la costituzione di parte civile nel processo penale, di un soggetto non legato da rapporti di stretta parentela e non convivente con la vittima del reato come il figlio della moglie di quest'ultimo, al fine di ottenere il risarcimento dei danni morali, considerato che la definitiva perdita di un rapporto di "affectio familiaris" può comportare l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 Cost. sub specie di intangibilità della sfera degli affetti, la cui lesione comporta la riparazione ex art.

2059 cod. civ. mentre è, in tal caso, escluso il risarcimento dei danni patrimoniali.".

Sulla base di questo principio di diritto la Corte di cassazione, con sentenza n. 43434 dell'8 novembre 2012, ha confermato la decisone dei giudici di merito che, ritenendo responsabili l'amministratore unico e il responsabile di cantiere di una società per omicidio colposo per l'infortunio mortale occorso ad un lavoratore extracomunitario, riconosceva il risarcimento danni in favore sia della madre del lavoratore che di coloro che la vittima aveva ospitato in Italia e con cui conviveva stabilmente.

La Suprema Corte ha altresì precisato che in linea specifica la giurisprudenza ha affermato "la risarcibilità del danno subito da persona convivente derivatogli (quale vittima secondaria) dalla lesione materiale cagionata alla persona con la quale convive dalla condotta illecita del terzo e ha collegato tale danno alla provata turbativa dell'equilibrio affettivo e patrimoniale instaurato mediante una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale.".

La sentenza d'appello - affermano i giudici di legittimità - accertato il rapporto di convivenza con il lavoratore in attualità di guadagno, ha correttamente applicato i principi più sopra riassunti nel loro profilo patrimoniale e affettivo, e ha ben ritenuto che i conviventi fossero legittimati a costituirsi parte civile contro i responsabili della morte del lavoratore partecipe di quel consorzio familiare.

Il provvedimento che allontana il piccolo dai genitori non è ricorribile in Cassazione

Con la sentenza n. 17916 del 18 ottobre 2012, la Corte di cassazione ha affermato che è inammissibile il ricorso in Cassazione contro il provvedimento che ordina l'allontanamento del minore dai genitori. La prima sezione civile ha ritenuto che il decreto adottato, richiesto dalla Procura dopo il sospetto che la madre avesse reso false dichiarazioni circa la maternità all'ufficiale dello stato civile, con il quale la bimba è stata allontanata da casa, non legittimasse il ricorso in Cassazione.

Al riguardo, Piazza Cavour ha ribadito che «i provvedimenti, emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell'art.

317-bis Cc, che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli artt. 330 e 332 Cc, che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell'art. 333 Cc, o che dispongano l'affidamento contemplato dall'art. 4, secondo coma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, in quanto privi dei caratteri della decisorietà e definitività in senso sostanziale, non sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione di cui all'art. 111, settimo coma, Cost. neppure se ricorrente lamenti la lesione di situazioni aventi rilievo processuale, quali espressione del diritto di azione, in quanto la pronunzia sull'osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all'esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell'ateo giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell'atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito».


 

Cassazione: e' violenza privata trascinare la figlia minorenne dal nonno per scusarsi

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 42926 del 7 novembre 2012, ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da un papà confermandone la condanna per violenza privata ai danni della figlia minore, per averla costretta, con la forza, a seguirlo presso l'abitazione del nonno paterno.

Il ricorrente sosteneva che lo scopo da lui perseguito non era quello di far incontrare la figlia coi nonni contro la sua volontà, ma solo quello di indurla a scusarsi col nonno, nei confronti dei quale aveva tenuto giorni prima un comportamento insolente.

La Corte d'Appello aveva negato che potesse applicarsi la scriminante dello ius corrigendi, osservando che "l'esercizio di esso, nei limiti in cui sia eventualmente configurabile, deve concretarsi in modalità lecite e rispettose della personalità del minore" e la Suprema Corte ha ritenuto corretta la motivazione dei giudici di merito osservando che, "quali che fossero le finalità educative da lui perseguite, il diritto genitoriale non poteva estendersi fino a farvi rientrare l'uso gratuito della violenza; la costrizione fisica usata nei confronti della minore, obbligata con la forza a seguire il padre presso l'abitazione dei nonni paterni, e a tal fine letteralmente trascinata per parecchi metri, è stata giudicata eccedente i limiti della causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen.".

Anche il richiamo fatto nel ricorso al permanere della potestà genitoriale in capo al padre non affidatario - precisano i giudici di legittimità - "è fuori centro rispetto all'apparato motivazionale della sentenza impugnata.".

Separazione: Cassazione, è competente il giudice dell'ultima residenza della coppia anche se c'è stato abbandono del tetto coniugale

Con la sentenza n. 17382 dell'11 ottobre 2012, la Corte di Cassazione ha affermato che in caso di separazione dei coniugi, la competenza spetta al giudice del luogo dell'ultima residenza comune anche in caso di abbandono del tetto coniugale. Con questa precisazione la sesta sezione civile ha respinto il ricorso contro un'ordinanza del tribunale di Ravenna che aveva indicato il tribunale di Forlì come competente per un giudizio di separazione personale in virtù della disposizione contenuta nell'articolo 706 Cpc, come modificato dalla legge 80/2005, in cui si afferma che il tribunale territorialmente competente per la separazione personale dei coniugi va individuato in base al criterio prioritario del luogo di ultima residenza comune dei coniugi.

Nella fattispecie tale ultima residenza si trovava nel circondario del tribunale di Forlì, mentre il riferimento al luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto opera soltanto nell'ipotesi di insussistenza, "ab initio", di una casa familiare comune.
Dunque, anche se c'è stato l'abbandono del "tetto coniugale", nel caso specifico da parte della moglie, ciò non vuol dire che non vi sia una casa comune dei coniugi: per questo non può trovare applicazione il criterio del luogo di residenza o domicilio della parte convenuta, «in quanto il riferimento letterale alla mancanza "dell'ultima residenza comune dei coniugi", contenuto nell'articolo 706 Cpc, non lascia dubbi sulla correttezza dell'interpretazione di tale norma recepita nel provvedimento impugnato».

Cassazione: niente sesso con il marito? Allora ti addebito la separazione!

Ormai si sta prendendo l'abitudine a quelle sentenze della Corte Suprema che trasbordano nella sfera privata, soprattutto quando si tratta di contese a livello familiare. Dove per familiare si intende "tra (ex) moglie e (ex) marito".

Questa volta tocca ad una coppia fiorentina, "scoppiata" dopo la nascita della loro figlia, al seguito della quale la signora M.T. si era letteralmente (e fisicamente!) rifiutata di avere rapporti sessuali con il proprio partner. Il rifiuto, che si protraeva ormai da ben sette anni (!), aveva spinto il marito, L.

C., a dormire in una stanza separata. Per non cadere in tentazione e beccarsi l'ennesimo due di picche, aggiungerei io. Ah, scordavo, oltre a negarsi al marito non si preoccupava nemmeno di tenere pulita ed in ordine la casa.

Il marito dopo anni di tentativi di approccio caduti nel vuoto, si era deciso a chiedere la separazione. Risoluto anche nel non tirar fuori nulla per la ex. Il Tribunale di Firenze, nel 2005, aveva però minimizzato i disagi vissuti dall'uomo, in funzione del fatto che per il giudice la " 'sedatio concupiscentiae' non era l'unico esclusivo fine del matrimonio". Forse che si, forse che no. Alla moglie intanto era stato riconosciuto un addebito per la separazione.

Ma la questione non si è chiusa con questa sentenza. L'uomo aveva fatto ricorso alla Corte d'Appello, certo in cuor suo di avere tutti i diritti ad una normale vita sessuale con la moglie. E la Corte ha accolto il suo ricorso, bocciando la precedente decisione del Tribunale.

A questo punto è stato il turno della donna, che ha scelto di fare ricorso in Cassazione. I giudici però hanno confermato la decisione della Corte d'Appello. E lo hanno fatto con la seguente motivazione: "il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge - poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell'equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner - configura e integra violazione dell'inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall'art. 143 c.c., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale". In poche parole ciascun partner è tenuto a soddisfare i bisogni dell'altro, pena il rischio di addebito della separazione

La Prima sezione civile della Corte (sentenza n.19112/2012), ha così respinto il ricorso della signora M.T., che si opponeva all'addebito della separazione. Rimarcando che il rifiuto di rapporti sessuali nella coppia "non può in alcun modo essere giustificata come reazione o ritorsione nei confronti del partner e legittima pienamente l'addebitamento della separazione, in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato". Oltre a ciò la donna e' stata condannata a farsi carico delle spese processuali sostenute dall'ex marito, per un importo totale di mille euro.

Donne quindi ricordatevi, sforzatevi di fare le geishe, se non volete brutte sorprese in caso di rottura.

Cassazione: discriminazioni a lavoro risarcite anche se non c'è mobbing

Le vessazioni e le discriminazione subite sul posto di lavoro vanno risarcite anche quando manca la prova per configurare il reato di mobbing. E' quanto afferma la Corte di Cassazione con sentenza n.18927/2012 occupandosi di un caso in cui pur non essendo possibile individuare l'esistenza di un vero e proprio intento persecutorio, idoneo a poter configurare un'ipotesi di mobbing, ha ritenuto che comunque alcuni singoli comportamenti del datore di lavoro, messi in qualche modo in relazione con altri comportamenti denunciati, potessero considerarsi vessatori e mortificanti per il dipendente.

Con questa motivazione la Corte ha dato ragione a una farmacista che aveva chiesto di essere risarcita per i danni subiti in quanto ammalatasi di depressione grave a causa di continue angherie subite dal titolare e dai colleghi. La donna, che era la più anziana del gruppo, era stata infatti presa di mira poichè non era in grado di usare il sistema informatico.

La Corte Suprema ribaltando i precedenti verdetti dei giudici di primo grado e d'appello ha sottolineato come sia sufficiente una serie di azioni che prese una ad una potrebbero minare quell'integrità psico-fisica del lavoratore, che il datore deve garantire per obbligo verso la legge e la Costituzione. Una volta che la vittima ha fornito elementi che dimostrano le vessazioni il datore di lavoro deve essere in grado di dimostrare il contrario.

Come si legge in sentenza, "Nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice di merito, pur nella accertata insussistenza di un accertamento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni comportamenti denunciati - esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro".
Vai al testo della sentenza n.18927/2012

Cassazione: la ex sceglie da sola la scuola privata per la figlia? Se la paghi!

Evviva! Cari papà separati e sbollettati gioite, la Corte di Cassazione ha dimostrato, con la sentenza n. 10174/2012, di tenere in considerazione anche voi. E lo fa ribadendo che la parità genitoriale è alla base dell'affido condiviso dei figli, specialmente in sede di decisioni sul futuro della propria progenie.

E se le scelte sono evidentemente unilaterali, nel caso specifico della ex moglie, il padre non sarà tenuto a sborsare quattrini, per contribuire a qualcosa in cui non ha potuto mettere becco.

La sentenza si riferisce al caso di un uomo che, in seguito a divorzio, doveva farsi carico del mantenimento delle figlie minori, oltre che delle loro spese per abbigliamento, istruzione e cure mediche. Precisiamo che per queste ultime non era stato previsto alcun tipo di accordo in anticipo tra i due; insomma alla madre carta bianca, confidando nella sua buona fede.

Non sempre però si può darla per scontata. La ex-moglie aveva infatti deciso di sua iniziativa di iscrivere la figlia minore ad un istituto privato, escludendo in toto il marito dalla decisione. Pretendendo però il rimborso del costo della retta scolastica e di tutte le spese sostenute (divise e libri), convinta che la sentenza de giudice le desse il diritto di fare ciò che voleva.

L'ex-marito invece non aveva assolutamente gradito la decisione della donna, e si era pertanto rifiutato di versare soldi per il rimborso di queste spese scolastiche, puntando sul fatto che non fosse stato consultato prima della decisione. In primo luogo perché avrebbe voluto essere chiamato in causa riguardo al futuro della propria figlia; in secondo luogo per la cifra di tutto rispetto da dover rimborsare, cifra che avrebbe dovuto essere approvata anche da lui, quantomeno.

La ex-moglie era partita subito all'attacco con un decreto ingiuntivo, per ottenere il rimborso totale delle spese. Il Tribunale però, in sede di opposizione, lo aveva revocato, addebitando al marito solo una parte delle spese sostenute dalla donna.

Agguerrita la ex consorte (anche il padre non è stato da meno) ha prima proposto Appello e poi si è rivolta alla Corte di Cassazione, giacché l'appello era stato accolto solo in parte.

L'uomo dal canto suo ha contestato la rimborsabilità delle spese sostenute dalla donna, avendo lei preso una decisione da cui lui era stato completamente estromesso. Che se la pagasse lei insomma la scuola privata!

La costanza e perseveranza dell'uomo è stata infine (o meglio, in Cassazione!) premiata. Gli è stata data ragione, perché nei giudizi precedenti non era stato considerato che l'affidamento congiunto sottintende la completa collaborazione da parte di entrambi i genitori per l'educazione dei figli minori. Insomma i genitori hanno lo stesso potere e peso decisionale, così come le stesse responsabilità. Condizione necessaria per garantire ai figli equilibrio nella crescita e nella formazione.

La Corte di Cassazione ha dunque ricordato che la volontà della legge, nel caso di affido condiviso, è la responsabilizzazione dei genitori nella cura, educazione ed istruzione dei figli. Proprio in base a questo principio ha dato ragione all'ex marito.

Quindi, care ex-mogli, attenzione a prendere decisioni in assolo sull'onda della rabbia e del rancore. Contate fino a tre e chiamate sempre il vostro ex. Anche per acquistare un paio di calzini. Non si sa mai!

Cassazione: risarcibilità danni da uso del cellulare. Ecco il testo della sentenza.

Come abbiamo già in precedenza segnalato, per la prima volta in Italia, e forse anche nel mondo, la Cassazione (sentenza 17438/2012) ha riconosciuto che un uso intenso del cellulare può portare a sviluppare un tumore. I.M., responsabile commerciale di una multinazionale, ha infatti vinto la battaglia legale contro l'Inail ottenendo il riconoscimento della pensione d'invalidità all'80%.

Al termine di questo articolo è possibile accedere al testo della parte motiva della sentenza.

Secondo la vicenda ricostruita dalla Corte il manager, per 12 anni, è stato costretto per lavoro a utilizzare il cellulare e il cordless per 5-6 ore al giorno: questa costante esposizione alle onde elettromagnetiche avrebbe portato allo sviluppo di un tumore benigno al nervo trigemino, scoperto dopo che il manager si era accorto una mattina di avere uno strano formicolio al mento mentre si faceva la barba.
Nonostante il tumore sia stato rimosso, M. è costretto a convivere con il dolore nella zona operata, dolore che non gli consente più di effettuare l'attività lavorativa.

Dopo aver perso una battaglia legale grazie ad un ricorso del lavoratore al tribunale d'appello di Brescia nel dicembre 2009, l'Inail si era rivolta alla Cassazione. Il 12 ottobre, tuttavia, la Corte Suprema ha dato ragione a M., confermando la condanna sulla base della letteratura scientifica che il manager aveva fornito a seguito di un lungo periodo di ricerche, nel quale è stato aiutato dai professori Giuseppe Grasso e Angelo Gino Levis.

"La mia non è una battaglia personale", ha dichiarato M. al Corriere della Sera, "ma volevo solo che venisse riconosciuto il legame che c'era tra la mia malattia e l'uso del cellulare e del cordless. Volevo che questo problema diventasse di dominio pubblico perché molte persone non sanno ancora il rischio che corrono parlando a lungo al cellulare senza utilizzare l'auricolare, oppure tenendolo infilato nella tasca dei pantaloni".
Vai al testo della sentenza 17438/2012

Cassazione: condanna per estorsione al datore di lavoro che costringe i dipendenti ad accettare trattamenti retributivi deteriori

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 42352 del 30 ottobre 2012, ha dichiarato inammissibile il ricorso dei titolari di un'azienda condannati, nei primi due gradi di giudizio, per talune ipotesi di estorsione continuata in danno di alcuni dipendenti. L'accusa traeva origine dalla denuncia dei dipendenti che affermavano di essere stati costretti dagli imputati, a vario titolo occupati nella gestione dell'impresa commerciale, ad accettare compensi per l'attività lavorativa svolta inferiori ai limiti di legge.

I ricorrenti deducono che erroneamente la Corte di merito "non ha ravvisato la violazione della correlazione tra accusa e sentenza, non ravvisando una sostanziale immutazione del fatto, originariamente contestato in termini di illecita decurtazione delle spettanze, secondo i contratti collettivi, sotto minaccia di illegittimo licenziamento e quanto ritenuto nella sentenza di condanna, in termini di prospettazione della necessità di dimettersi ove il trattamento economico corrisposto non fosse stato ritenuto adeguato". In particolare l'errore della Corte territoriale - sempre secondo i titolari dell'azienda - si era sostanziato nel ritenere equiparabili le due situazioni, sul fallace presupposto che entrambe le situazioni riguardavano la cessazione del rapporto di lavoro e, posto che le dimissioni postulano una libera valutazione del dipendente sull'opportunità di accettare un diverso trattamento retributivo, non poteva affermarsi la natura di minaccia a tale alternativa lasciata alla libera scelta del lavoratore.

Di diverso avviso la Suprema Corte che ha affermato che "agli imputati è stato contestato di avere prospettato ai dipendenti che non accettavano le deteriori condizioni economiche la possibilità di un illegittimo licenziamento, la circostanza emersa a seguito del dibattimento di primo grado secondo cui l'evento futuro era invece costituito dalle dimissioni, non può ritenersi avere mutato radicalmente l'oggetto del giudizio trattandosi di eventi comunque riguardanti l'interruzione del rapporto di lavoro per effetto una condotta illecita del datore di lavoro.

Tale era infatti la corresponsione in somme diverse rispetto a quelle indicate nelle buste paga a fronte delle quali le parti offese, ed anche altri lavoratori, vennero posti dinanzi all'alternativa di accettare ovvero interrompere il rapporto di lavoro".

E comunque - proseguono i giudici di legittimità - "l'evento ingiusto va rappresentato nell'interruzione del rapporto di lavoro essendo indifferente la causa del licenziamento o delle dimissioni essendo queste ultime un fatto solo apparentemente volontario ma, in effetti, sempre imposto dalla abusiva condotta altrui...".

Cassazione: Addebito della separazione al marito per 'adulterio apparente'. Il testo della sentenza

Può essere addebitata la separazione all'ex marito anche se l'adulterio è stato solo apparente, senza consumazione del rapporto sessuale

E' quanto afferma la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 17195/2012, ha affermato che è legittimo addebitare la separazione al marito "adultero apparente" che frequenta assiduamente un'amica, visto che tale condotta mette a repentaglio il rapporto della coppia.

Insomma, la prima sezione civile, in linea con la Corte territoriale, ha riconosciuto la sussistenza di un "adulterio apparente", sulla sola base della frequentazione assidua, anche nella stessa casa familiare, con un'amica, che aveva mutato in senso negativo il comportamento dell'ex marito verso la moglie.

La frequentazione era stata confermata anche dalle testimonianze.

L'uomo a fronte dela richiesta di interrompere la frequentazione con la donna, aveva apparentemente esaudito il volere della consorte ma, in realtà, aveva continuato di nascosto la frequentazione.

Insomma, spiegano i giudici ci Piazza Cavour, anche ricoprire la veste di semplice "accompagnatore" di un'altra donna, non si concilia con un generico rapporto di amicizia ma mette solo in discussione la sopravvivenza stessa della famiglia.
Qui sotto in allegato il testo integrale della sentenza.
Vai al testo della sentenza 17195/2012

Cassazione: nullo il matrimonio se si prova "propensione a divorzio"

Con la sentenza n. 17191 del 9 ottobre 2012, la Corte di cassazione ha affermato che è sufficiente la testimonianza degli amici circa la propensione al divorzio in caso di difficoltà e la riserva mentale dell'indissolubilità del vincolo da parte di uno dei due coniugi, per rendere legittima la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio.

La prima sezione civile ha così accolto il ricorso contro una decisione della Corte d'appello di Salerno che aveva respinto la domanda di riconoscimento dell'efficacia in Italia della sentenza ecclesiastica con cui era stata dichiarata la nullità del matrimonio per esclusione dell'indissolubilità del vincolo da parte del marito.

Al riguardo, per la Suprema corte per l'invalidità del matrimonio bastano le testimonianze degli amici della coppia, che debbono ritenersi idonee come prove, e dalle quali è risultata, oltre l'avversione al matrimonio, il proposito di divorziare, qualora l'esperienza coniugale fosse risultata inappagante.

Nella sentenza si precisa anche che "la declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia pronunciato la nullità del matrimonio concordatario per esclusione di uno dei "bona matrimonii" da parte di uno soltanto dei coniugi postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all'altro coniuge, ovvero che sia stata da questo effettivamente conosciuta, o ancora che non gli sia stata nota soltanto a causa della sua negligenza, atteso che, ove le menzionate situazioni non ricorrano, la delibazione è impedita dalla contrarietà della sentenza all'ordine pubblico italiano, nel cui ambito trova collocazione anche il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole".

Pertanto, ricorso accolto con rinvio alla Corte d'appello di Salerno in diversa composizione.
Cai al testo della sentenza 17191/2012

Cassazione: infortunio sul lavoro, sì al riconoscimento del "danno differenziale"

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18469 del 26 ottobre 2012, ha chiarito che al lavoratore, vittima di infortunio a causa dell'omessa informazione dettagliata dei pericoli e della redazione di un piano di sicurezza da parte del datore di lavoro, spetta il risarcimento del danno ottenuto dalla differenza tra quanto versato dall'Inail a titolo di indennizzo per infortunio sul lavoro o malattia professionale, e quanto è possibile richiedere al datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno in sede civilistica.

La Suprema Corte ha evidenziato come, nel caso di specie, la Corte d'Appello ha correttamente riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno costituito dalla differenza tra l'indennizzo liquidato dall'Inail ai sensi dell'art. 13 del dlgs n 38/2000 ed il risarcimento previsto in applicazione delle tabelle in uso nel Tribunale di Milano (v. calcolo danno biologico sulla base delle tabelle di Milano) determinato secondo i principi ed i criteri di cui agli artt. 1223 e seg., 2056 e seg. essenzialmente equitativi, rilevando in particolare che "l'Inail corrisponde ex art. 13 dlgs n 38/2000 non un risarcimento ma un'indennità e ciò in attesa della definizione di carattere generale di
danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento ...in via sperimentale, assumendo quale riferimento la lesione dell'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale".

La Corte di merito ha sottolineato poi che "non si tratta quindi di un risarcimento parametrato alla effettiva perdita ed inoltre le conseguenze sono considerate per una sola componente, la lesione dell'integrità psicofisica, senza considerare le altre voci di danno esistenziale e alla vita di relazione".

La società ricorrente - precisano i giudici di legittimità - non ha formulato specifiche censure alle affermazioni della Corte d'Appello, né con riferimento alla diversa natura dell'indennizzo liquidato dall'Inail, rispetto al risarcimento chiesto dal lavoratore al suo datore di lavoro né con riferimento alla affermata diversità delle voci di danno coperte dall'indennizzo dell'Istituto assicuratore rispetto a quelle risarcite ed alla conseguente insussistenza di una duplicazione delle medesime voci di danno.

La censura formulata dalla ricorrente - si legge nella sentenza - appare del tutto generica. "La Corte d'Appello si è invece attenuta a principi che appaiono condivisibili là ove ha sottolineato le considerevoli e strutturali diversità tra l'indennizzo erogato dall'Inail all'assicurato ed il risarcimento di cui è causa che attiene al diverso rapporto tra il lavoratore ed il suo datore di lavoro. Il primo, determinato dalla legge in misura forfettaria e predeterminata dovuto prescindendo dall'individuazione del responsabile, assolve ad una funzione sociale ed è finalizzato a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore secondo quanto previsto dall'art. 38 Cost.".

Quanto al pericolo di duplicazione dei risarcimenti gli Ermellini precisano che la Corte d'Appello ha evidenziato che la liquidazione dell'INAIL è limitala alla lesione dell'integrità psicofisica senza considerare le altre voci di danno esistenziale, alla vita di relazione e al danno morale.

Cassazione: Violenza sessuale di gruppo: sconto di pena al violentatore se sono stati altri a farla ubriacare

Con la sentenza 40565 del 16 ottobre 2012 la Corte di Cassazione ha stabilito che durante una violenza di gruppo vanno valutati attentamente gli atteggiamenti tenuti dagli stupratori distinguendo diversi gradi di responsabilità nel portare a compimento il reato. Va dunque riconosciuto uno sconto di pena a chi non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l'atto e per questo motivo ha annullato una sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria invitandola a rideterminare la pena per un un giovane accusato di stupro di gruppo.

L'uomo era stato il terzo violentatore di una diciottenne. Lo stupro era avvenuto su uno yacth che si trovava nelle acque dell'isola di Panarea nelle Eolie, ma al contrario degli altri due del branco non aveva partecipato alla fase precedente durante la quale la ragazza era stata fatta ubriacare fin quasi a perdere i sensi.

La Corte ha riconosciuto che, per quanto sia grave l'atto commesso, le responsabilità sono minori visto che ha ricoperto un ruolo di minima importanza nella fase preparatoria ed esecutiva del reato pertanto gli vanno riconosciute delle attenuanti.

I giudici della Suprema Corte con l'occasione hanno voluto ricordare che la violenza sessuale consiste in ogni atto che viene posto in essere per indurre una persona ad acconsentire all'atto sessuale, non è necessario che vi siano costringimenti e sopraffazione fisica, ma è sufficiente che la vittima venga posta in una condizione di inferiorità tale che non sia in grado di opporsi ai voleri dello stupratore.

La sentenza 40565 si è occupata anche della richiesta di risarcimento dei danni avanzata dalla vittima per il manifestarsi di una forma di anoressia dopo la violenza subita. La suprema Corte ha riconosciuto che esiste una correlazione tra il grave reato subito e la condizione psicopatologica in cui è venuta a trovarsi la ragazza e, seppure tale conseguenza non era stata prevista dai violentatori, è chiaro che è stato il loro comportamento a provocare alla ragazza i gravi scompensi nervosi. Tale conseguenza doveva essere assolutamente prevedibile in quanto l'atto consumato nei confronti della vittima è stato di particolarità brutalità e non poteva non lasciare ripercussioni di carattere psicologico, vista anche la sua giovane età.

Cassazione: l'addebito della separazione per infedeltà non comporta automaticamente l'obbligo del mantenimento

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18175 del 23 ottobre 2012, premettendo che in tema di separazione, la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l'art. 143 cod. civ. pone a carico dei coniugi, essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, chiarisce che "la violazione dell'obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, rappresenta una violazione particolarmente grave di tale obbligo, che, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, causa della separazione personale dei coniugi e, quindi, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge che ne è responsabile, sempreché non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale mediante un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, da cui risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale".

Nel caso di specie il ricorrente era stato visto da una collega durante un viaggio di lavoro assieme a quella che sarebbe diventata la sua compagna, una volta lasciata la moglie e tale contegno - come affermato dai giudici di merito - idoneo ad evidenziare ai terzi l'esistenza della relazione extraconiugale, quand'anche in concreto non ancora intrattenuta con carattere di stabilità, viene ritenuto offensivo nei confronti della moglie e fondante la pronuncia di addebito della separazione.

La Suprema Corte, rigettando i motivi del ricorso del marito in merito all'addebito, ha invece accolto i motivi con i quali il marito infedele contestava l'obbligo di corrispondere un assegno di 150 euro al mese a titolo di contributo per il mantenimento della moglie evidenziando che "condizione essenziale per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione è che questi sia privo di adeguati redditi propri, ossia di redditi che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, nonché che sussista una disparità economica tra i coniugi."

La Corte territoriale - proseguono i giudici di legittimità - avrebbe dovuto prendere in considerazione, quale indispensabile elemento di riferimento ai fini dell'attribuzione e della valutazione di congruità dell'assegno, il contesto sociale nel quale i coniugi avevano vissuto durante la convivenza.

Tale compito non risulta assolto ed è labile il riferimento, compiuto dai giudici territoriali, all'incertezza e al "carattere altalenante del profitto d'impresa" della moglie a fronte della "certezza del reddito da lavoro dipendente percepito" dal marito non essendo dato di comprendere "se l'attuale situazione giustifichi o meno l'attribuzione dell'assegno, ovvero se essa sia stata disposta per sopperire ad eventuali e future oscillazioni deficitarie del reddito d'impresa della moglie alle quali, in realtà, si potrà porre rimedio, ove abbiano in concreto a verificarsi".

Vai al testo della sentenza 18175/2012

Cassazione: padre separato e disoccupato? Non basta per non pagare gli alimenti.

Vi siete separati? Il giudice vi ha appioppato l'esborso su base mensile di un bell'assegno (per l'ex, non per voi!) per mantenere la prole? Vi è capitato, causa crisi, di perdere il vostro lavoro, nonché unico mezzo di sostentamento e di pagamento dei suddetti alimenti?

Bene, anzi male, anzi malissimo. Dovrete pagare comunque. Perché, come ha stabilito la Cassazione, lo stato di disoccupazione non è sufficiente di per sé a scagionare un povero papà separato dal pagare ciò che spetta ai figli.

La Corte Suprema ha ricordato infatti che "l'allegazione della sopravvenuta condizione di disoccupazione non esime da responsabilità", in base all'art. 570 c.p. Poiché "lo stato di disoccupazione non coincide necessariamente con l'incapacità economica e incombe pur sempre sull'imputato l'onere di allegazione di idonei e convincenti elementi sintomatici della concreta impossibilità di adempiere".

Prima di gridare allo scandalo e allo schifo, rammentiamo che esistono moltissimi (esagero? Forse basta "molti", o persino solo "alcuni") uomini che lavorano quasi per hobby, vantano possedimenti su tutto il suolo nazionale e poi, mai e poi mai, vivrebbero esclusivamente con il loro stipendio. La Cassazione ha sottolineato proprio la differenza tra restare senza posto di lavoro ed essere indigente; in mezzo ci può essere un bel patrimonio, o esserci un'altra o più fonti si reddito.

Questo pare essere il caso del signor F.R., padre marchigiano separato (non necessariamente in quest'ordine, ndr), che si è ritrovato in Cassazione per tentare di annullare la decisione del tribunale di Ancona. Tribunale che, nel lontano 2002, gli aveva imposto il pagamento di alimenti al figlio minore. Sulla base di tutto ciò che è stato precedentemente detto e riportato, la Sesta sezione penale della Suprema Corte ha convalidato la condanna per violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti del signor F. R., dopo che era stato regolarmente denunciato dalla ex moglie per non aver corrisposto gli alimenti al figlio minorenne, nel periodo tra il giugno del 2003 e il maggio del 2008. Ben cinque anni scarsi, o sessanta mesi (fate vobis!), di nulla totale.

La Suprema Corte ha precisato che la Corte d'appello di Ancona, con sentenza del giugno 2010, aveva di fatto constatato che il signor F. R "lavorava e percepiva un regolare stipendio fino a quando ha convissuto con la moglie". E su questa base ha stabilito l'inammissibilità del ricorso.

Due considerazioni sorgono spontanee, dritte dritte dal cuore: Se vi sposate cercate sempre di avere un doppio impiego; Se non vi sposate è meglio!

Cassazione: va condannato l'investigatore privato che filma la persona all'interno della sua dimora

La Suprema Corte, con Sentenza 19 ottobre 2012 n. 41021, ha respinto il ricorso di un investigatore privato già condannato dal Tribunale per il reato di interferenze illecite nella vita privata ex art. 615-bis c.p

L'imputato si era procurato indebitamente, mediante uso di uno strumento di ripresa visiva, immagini attinenti alla vita privata della persona offesa, introducendosi nel giardino adiacente all'abitazione in cui essa si trovava.

Il Tribunale con la precedente sentenza aveva accertato il reato di interferenze illecite nella vita privata in quanto egli aveva violato il domicilio della persona offesa.

Dello stesso avviso anche la Corte di Cassazione che ribadisce che "il riferimento contenuto nel primo comma dell'art. 615-bis c.p. ai luoghi indicato nell'art. 614 c.p. ha la funzione di delimitare gli ambienti nei quali l'interferenza nella vita privata altrui assume rilevanza penale, ma anche quella di recepire il regime giuridico dettato dalla disposizione.

Aggiunge infatti che "ai fini della configurabilità del reato punito dall'art. 615 bis c.p. è irrilevante la mancata identificazione, o la non identificabilità, della persona cui si riferisce l'immagine abusivamente captata dal terzo, atteso che il titolare dell'interesse protetto dalla norma non è soltanto il soggetto direttamente attinto dall'abusiva captazione delle immagini, ma chiunque, all'interno del luogo violato, compia abitualmente atti della vita privata che necessariamente alle stesse si ricolleghino".

Per questi motivi la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso dell'investigatore privato.
Vai alla motivazione della sentenza 41021/2012