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martedì 2 aprile 2013

Cassazione: legittima l'acquisizione di videoregistrazione di luogo pubblico anche senza autorizzazione del gip


Cassazione Penale, sentenza n.6812 del 12 Febbraio 2013

L'art. 234 del
codice penale (prova documentale) enuncia il principio secondo il quale è espressamente consentita l'acquisizione di documentazione utile alla decisione "che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo". Nel caso di specie ha proposto ricorso la difesa di un imputato condannato in secondo grado sostenendo l'inutilizzabilità dei filmati acquisiti durante i vari gradi di giudizio, registrazioni che sono state alla base della sentenza di condanna.
La Cassazione ha ricordato come invece la produzione di una videoregistrazione di un impianto di sorveglianza esterno sia legittima e faccia piena prova. A nulla rileva il fatto che la stessa sia stata procurata in violazione della normativa privacy poiché questa circostanza opera autonomamente, non interessando il piano penale. E' infatti sempre ammessa come prova documentale la videoregistrazione acquisita dalla Polizia Giudiziaria a mezzo telecamera posizionata sull'esterno, luogo aperto al pubblico.
Trattandosi di un luogo di passaggio è oggettivamente visibile da più persone e di conseguenza agli agenti non occorre previo provvedimento autorizzatorio del Giudice delle indagini preliminari (non essendo classificata come ripresa in luogo privato, non può neanche in alcun modo violare la garanzia alla privacy). L'autonomia investigativa prevale e nella pronuncia in oggetto la Suprema Corte, uniformandosi ad un orientamento costante, ha ribadito questo concetto.
Testo della sentenza 6812/2013

Cassazione: lo jusvariandi nei confronti del lavoratore assunto per sostituirne uno assente

"Il lavoratore assunto a termine ai sensi dell'art. 1, secondo comma, lett. b) della legge n. 230 del 1962, per la sostituzione dì un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell'impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all'imprenditore - nell'esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell'assenza di un dipendente) l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme dì sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed assunzione a termine, nel senso che la seconda deve essere realmente determinata dalla necessità creatasi nell'azienda per effetto della prima".

E' quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 6787 del 19 marzo 2013, rigettando il ricorso di una lavoratrice volto ad ottnere l'accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro a tempo determinato e all'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ha altresì precisato che "tale orientamento interpretativo vale anche a disciplinare le fattispecie relative a contratti a termine per ragioni sostitutive ricadenti nel regime di cui alla legge n. 56 del 1987. Questa ha attribuito alla contrattazione collettiva l'identificazione delle ipotesi nelle quali è ammissibile l'apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, che possono essere anche diverse e più ampie di quelle previste dalla legge 18 aprile 1962 n. 230, inserendosi pur sempre nel sistema delineato dalla tale legge."

I Giudici di legittimità hanno inoltre chiarito che in merito alla necessità che occorra una "correlazione di tipo causale" tra l'attività del lavoratore assunto in sostituzione e quella del lavoratore sostituito, per potere affermare che l'assunzione sia comunque riconducibile alla sostituzione di un lavoratore assente, impedito a svolgere la prestazione, la valutazione della sussistenza di questo rapporto di correlazione causale costituisce giudizio di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità, quando la relativa motivazione sussista, sia sufficiente e non sia contraddittoria.

Nel caso in esame, il giudice di appello ha ravvisato la sussistenza di tali presupposti, avendo accertato la correlazione causale tra le diverse posizioni lavorative interessate dallo scorrimento. Nella stessa logica ed entro gli stessi limiti deve ritenersi - si legge nella sentenza dei giudici di Piazza Cavour - che "in caso di assunzione a termine di un lavoratore in sostituzione dì un altro assente, per il periodo dell'assenza, il datore potrà esercitare nei confronti del lavoratore a termine quel medesimo jusvariandi che avrebbe potuto esercitare nei confronti del lavoratore sostituito."

Cassazione: infortunio in itinere, no al risarcimento se la scelta di utilizzare il mezzo privato non è necessitata


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6725 del 18 marzo 2013, ha affermato che "«il rischio elettivo» configurato come l'unico limite alla copertura assicurativa di qualsiasi infortunio, in quanto ne esclude l'essenziale requisito della «occasione di lavoro», assume, con riferimento all' «infortunio in itinere», una nozione più ampia, rispetto all'infortunio che si verifichi nel corso della attività lavorativa vera e propria, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sé non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza.

Sulla base di tale principio la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto da un lavoratore che, nel percorrere il percorso casa-lavoro, a bordo del proprio motoveicolo, al fine di raggiungere il posto di lavoro, aveva subito, seguendo l'abituale percorso, un incidente con un autoveicolo che aveva cambiato bruscamente direzione di marcia senza effettuare alcuna segnalazione.

Il ricorrente aveva chiesto la costituzione in via amministrativa di una rendita da infortunio ma la Corte d'Appello aveva ritenuto l'insussistenza della necessità dell'uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto ed aveva affermato che la scelta del ricorrente di usare il mezzo privato non fosse necessitata.

I Giudici di legittimità, ritenedo che la sentenza impugnata non si discosta dal principio di diritto enunciato, laddove nega la copertura assicurativa al dedotto infortunio (incontrovertibilmente) in itinere - in dipendenza della configurazione, come rischio elettivo appunto, del comportamento del lavoratore che lo ha determinato - all'esito di accertamento di fatto che, peraltro, risulta incensurabile, sotto il profilo del vizio di motivazione, precisa che "anche a volere ammettere che lo stesso ricorrente avesse la necessità di utilizzare il mezzo proprio per l'assenza di soluzioni alternative al detto uso, la decisione impugnata risulta, tuttavia, adeguatamente sorretta dal concorrente accertamento che, in ogni caso, il tragitto era percorribile a piedi ovvero utilizzando un mezzo di trasporto pubblico. Infatti, alla luce del principio di diritto enunciato, tanto basta - per configurare, nella dedotta fattispecie, il rischio elettivo" - e per rigettare, di conseguenza, il ricorso.".

In tema di infortunio "in itinere" - si legge nella sentenza - il requisito della "occasione di lavoro" implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio, indipendentemente dal grado maggiore o minore di questo, assumendo il lavoro il ruolo di fattore occasionale del rischio stesso ed essendo il limite della copertura assicurativa costituito esclusivamente dal "rischio elettivo", intendendosi per tale quello che, estraneo e non attinente alla attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interattiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.

"La valutazione dell'inerenza del rischio all'attività lavorativa ed alle sue modalità costituisce un apprezzamento di fatto di competenza del giudice del merito che, nella specie, con motivazione coerente ai principi di diritto enunciati e priva di salti logici, è pervenuto alla conclusione che il lavoratore non avesse diritto a copertura assicurativa, essendo stata la scelta del mezzo personale dettata da ragioni che, seppure legittime, non assumono uno spessore sociale tale da giustificare un intervento di carattere solidaristico a carico della collettività."

Cassazione: lavoratore che denuncia illeciti non può essere licenziato


Può un dipendente essere licenziato per aver denunciato dei presunti illeciti della propria azienda alla magistratura? No. Lo ricorda la Corte di Cassazione con la sentenza 6501/2013, che ha preso in esame il caso di un dipendente licenziato per aver presentato un esposto alla procura della Repubblica di Napoli in merito a delle irregolarità relative ad un appalto per la manutenzione di semafori.

L'uomo, che aveva denunciato irregolarità insieme ad altri cinque colleghi, era stato accusato di diffamazione dalla società per la quale lavorava, per aver allegato alcuni documenti aziendali nell'esposto presentato ai pm.

"Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'aver il dipendente reso noto all'autorita' giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda in cui lavora ne' l'averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell'esposto", è quanto si legge nella sentenza dei giudici di Piazza Cavour.

La Cassazione ha inoltre aggiunto che "va escluso, in punto di diritto, che il denunciare od esporre all'A.G. fatti potenzialmente rilevanti in sede penale sia contegno extralavorativo comunque idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, vuoi perché si tratta di condotta lecita e certamente non contraria ai doveri civili (è addirittura penalmente doverosa nelle ipotesi di obbligo di denuncia o di referto: cfr, artt, 361 e ss. c.p.), vuoi perché il rapporto fiduciario in questione concerne l'affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l'obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell'impresa".



Cassazione: sotto processo anche la madre se non impedisce l'abuso sessuale sul minore

La delicata tematica degli abusi sessuali sui minori è stata recentemente arricchita da un'autorevole pronuncia della Cassazione Penale; la Sezione III, con la n. 4127/2013 ha confermato la colpevolezza del genitore che omissivamente non impedisce l'evento lesivo (violenza sessuale) ai danni del figlio.

La problematica sottende la risoluzione di alcuni quesiti giuridici, quali la punibilità penalmente sanzionabile della condotta omissiva, il contenuto dell'obbligo di attivarsi in virtù dell'obbligo di garanzia gravante sul genitore e l'obbligo di denuncia in ragione del fatto che si è venuti a conoscenza della condotta illecita perpetrata sotto condizione obbligatoriamente garantita.

Partendo dal dato empirico, nel caso di specie, si tratta di un caso di abusi sessuali in danno ad un minore, da parte di un terzo soggetto estraneo alla famiglia nucleare, con la madre del minore a conoscenza degli incontri.

In merito alla prima questione, la colpevolezza omissiva trae origine dall'art. 40, comma 2 c.p., per cui "non impedire l'evento che si aveva l'obbligo di impedire, equivale a cagionarlo".

In tal senso, rispondendo al secondo quesito circa l'obbligo giuridico di impedire l'evento, essa si sostanzia concretamente sul gravame impeditivo in capo ad soggetto individuato, con adeguati poteri o facoltà a tutela di beni giuridici protetti.

Da ciò si deriva che la posizione di garanzia del genitore nei confronti del figlio rientra tra quelle garantite e (in risposta al terzo quesito) pur non sussistendo un obbligo di denuncia, sussiste l'obbligo di porre in essere tutti gli atti idonei affinché si facciano cessare le condotte illecite. Coerentemente, la Cassazione ha disposto la colpevolezza della condotta materna.

Cassazione: per il ricongiungimento familiare occorre una situazione di "emergenza psichica" dei minori


Cassazione Civile, sezione sesta, sentenza n. 4721 del 25 Febbraio 2013

Il d.lgs. 286/1998 (Testo Unico sull'immigrazione") detta norme specifiche in materia di permesso di soggiorno (titolo II e titolo IV). In particolare, l'art. 31 (disposizioni a favore dei minori) consente al Tribunale per i minorenni di derogare ai limiti di accesso e di soggiorno ai familiari del minore regolarmente soggiornante in Italia per gravi motivi legati alla salute fisica e mentale del piccolo.
Venuti meno questi gravi motivi, l'autorizzazione viene ritirata e ne cessano gli effetti.

Nella sentenza in oggetto La Suprema Corte, respingendo il ricorso di un immigrato, ha sottolineato come, al fine di ottenere l'autorizzazione di permanenza in Italia per vivere con i figli minori e la compagna, occorre provare che gli stessi si trovino in una situazione di grave disagio psichico, essendo venuta quindi a crearsi una vera e propria situazione di emergenza per il corretto sviluppo psicofisico dei bambini. Non basta quindi soltanto la mera indicazione di necessità di entrambe le figure genitoriali: l'interpretazione data dalla Corte di Cassazione è restrittiva, volta ad evitare che situazioni di clandestinità possano essere facilmente trasformate adducendo vaghe motivazioni fondate su esigenze familiari non meglio specificate.
Vai al testo della sentenza 4721/2013

Cassazione: il danno provocato dalla concorrenza sleale va provato

Sentenza Cassazione Civile, sezione prima, n. 5848 dell' 8 Marzo 2013

La fattispecie della concorrenza sleale, perseguibile ai fini civili ex art. 2598 codice civile, è integrata nel caso in cui un'azienda adotti comportamenti idonei a screditare un'impresa concorrente o a indurre confusione nel pubblico all'atto della scelta del prodotto (c.d. pubblicità ingannevole).
La norma in oggetto fornisce un elenco dei comportamenti denigranti, non esaustivo ma meramente esplicativo, adottando in chiusura la formula generica del "si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda". Una sua integrazione implica l'obbligo per l'azienda colpevole di rimuovere a proprie spese le cause del pregiudizio arrecato, nonché la condanna al risarcimento del danno a favore dell'azienda danneggiata.

Perchè tale fattispecie sia integrata occorre tuttavia che la danneggiata provi sia la reale perdita patrimoniale subita, sia la non futilità del danno ricevuto. Le informazioni screditanti devono poi essere state rivolte ad un pubblico indistinto o comunque ad una platea consistente: nel caso in oggetto non sono stati provati alcuni dei predetti requisiti, essendo state le informazioni screditanti comunicate a singoli individui, in un contesto limitato e soltanto occasionalmente.
La Suprema Corte ha dunque respinto la richiesta di risarcimento del danno di un'impresa che non è stata in grado di provare tutti questi elementi, nemmeno tramite presunzioni semplici.
Vai al testo della sentenza 5848/2013


Cassazione: illegittimo il licenziamento della lavoratrice sorpresa a lavorare in un bar durante l'assenza per infortunio

Non sempre lo stato di malattia impedisce di svolgere una diversa attività lavorativa. Come spiega la Corte di Cassazione "Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione (ipotesi neppure ipotizzata nella fattispecie in esame), anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.

E' quanto si legge nella sentenza n. 5809 dell'8 marzo 2013 con cui la Corte ha rigettato il ricorso proposto da una Società avverso la decisione con cui il giudice d'Appello riteneva illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente per essere stata notata a prestare attività lavorativa presso un bar durante l'assenza dal lavoro per infortunio.

Alla luce delle risultanze istruttorie, il giudice di merito aveva escluso che l'attività prestata dalla lavoratrice nel bar potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione e aveva precisato che il mero fatto addebitato, senza alcuna altra specificazione riguardante l'eventuale compromissione o ritardo della guarigione della infermità, non costituiva di per sé violazione di un qualche obbligo gravante sulla lavoratrice e che nella fattispecie la valutazione ex ante portava comunque ad escludere che l'attività prestata dalla dipendente nel bar potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione, in considerazione della natura dell'infermità (trauma alla caviglia), della attività svolta e del dato temporale (ultimi tre giorni prima della prevista ripresa del lavoro).

Tale accertamento di fatto - affermano i giudici di legittimità - oltre che conforme al principio di diritto sopra ribadito, risulta congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente e nel caso di specie è anche evidente che la Corte di merito, escludendo che la lavoratrice abbia in qualche modo violato i propri obblighi di correttezza e buona fede, ha in sostanza escluso la legittimità del licenziamento anche sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo.

Infortuni sul lavoro: Cassazione, datore che non ha valutato rischi da stress da lavori ripetitivi risponde di lesioni colpose

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11062 dell'8 marzo 2013, ha affermato che "in tema di reati colposi, la causalità si configura non solo quando il comportamento diligente imposto dalla norma a contenuto cautelare violata avrebbe certamente evitato l'evento antigiuridico che la stessa norma mirava a prevenire, ma anche quando una condotta appropriata avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno".

Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, un lavoratore, addetto a lavori di pulizia, mentre stava salendo lungo una scala a pioli cadeva dalla stessa riportando lesioni che ne determinavano una malattia guaribile in un tempo superiore a quaranta giorni.

Al datore di lavoro veniva ascritto non solo di non aver operato la valutazione del rischio da caduta dall'alto, da posture incongrue, ma anche di aver omesso di valutare i rischi connessi allo stress da lavoro ripetitivo.

Il primo giudice riteneva accertato, sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa, che la caduta era dovuta all'eccessiva stanchezza del lavoratore, giunto alla fine della giornata lavorativa all'ultimo vetro da pulire e riteneva altresì che tanto la stanchezza che la conseguente caduta fossero da ascrivere alla mancata valutazione dei rischi che qualora eseguita avrebbe consentito di prevedere modalità operative tali da ridurre lo stress da lavoro ripetitivo e da postura.

Riteneva quindi il Tribunale che tra la trasgressione cautelare e l'infortunio sul lavoro subito vi fosse un nesso eziologico, poiché l'evento era stato determinato "dalla situazione di stress e di stanchezza del lavoratore, dovuta all'effettuazione in serie di un lavoro ripetitivo e che richiedeva una postura e dei movimenti disergonomici", con accentuazione dei rischi "a causa delle modalità operative correnti, quali il trasporto delle necessarie attrezzature di pulizia da parte del lavoratore, durante la salita sulla scala, e la necessità dì svolgere il lavoro in tempi estremamente ristretti".

Non vi è alcun dubbio - affermano i giudici di legittimità - che nella sequenza degli accadimenti che esitarono nell'infortunio del lavoratore non intervenne alcun fattore estraneo all'esecuzione del lavoro, sicché è altamente probabile che se quelle condizioni di lavoro fossero state differenti (quelle poste in essere dopo il sinistro ovvero la previsione di una "apposita procedura, che limita la durata di tali operazioni, per evitare affaticamenti e rischi derivanti da lavori ripetitivi", con l'assegnazione del lavoratore ad altra mansione che non comporti affaticamento bio-meccanico ogni due ore di lavoro di pulizia di vetri con scale o trabatelli, nonché altre misure ancora dirette a fronteggiare i rischi in questione) l'infortunio non si sarebbe verificato.


La Cassazione da il via libera alla classaction contro Equitalia

Le cose si fanno un po' più semplici per i cittadini alle prese con le cartelle esattoriali di Equitalia.

A dispetto di quanto finora sostenuto dalle amministrazioni finanziarie, è infatti possibile esperire la classactionanche nei procedimenti tributari, purché i motivi di impugnazione siano i medesimi per tutti i ricorrenti.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4490 del 22 febbraio 2013. In precedenza si riteneva che si dovesse escludere l'ammissibilità di azioni collettive per la contestazione delle cartelle di pagamento considerate illegittime, in base al disposto di cui all'art.18 del D.Lgs. 546 del 1992 ai sensi del quale «ogni atto autonomamente impugnabile può essere impugnato solo per vizi propri».

Gli Ermellini hanno invece chiarito che il principio della unicità dei procedimenti sancito nel predetto decreto non viene affatto compromesso dal cumulo dei ricorsi; anzi, nulla impedisce che anche nel contenzioso tributario possa farsi luogo alla riunione dei processi intentati da soggetti diversi avverso titoli di riscossione diversi, allorché la decisione della causa dipenda «totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni» di fatto o di diritto.

Come è facile intuire, lo "sdoganamento" delle azioni collettive anche in questo settore porta con sé vantaggi non indifferenti per i consumatori, che da oggi avranno meno remore a far valere i propri diritti nei confronti del riscossore nazionale. Ciascun membro della "classe" potrà infatti beneficiare di un sensibile abbattimento dei costi burocratici e delle spese legali del processo, e del tipico effetto "ultra partes" della sentenza eventualmente favorevole.



Cassazione: preliminare di vendita, clausola di esclusione di responsabilità e sopravvenuta impossibilità di stipula del contratto definitivo


Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 5033 del 28 Febbraio 2013
Il contratto preliminare di vendita di un immobile è un patto che genera in capo alle parti l'obbligo di stipulare il contratto di vendita definitivo. Contraendo tale accordo il venditore dovrà mettere l'acquirente nelle condizioni di poter liberamente ed interamente godere dell'immobile prossimo alla vendita, mentre il futuro acquirente dovrà versare una caparra (c.d. caparra confirmatoria), una somma di denaro a garanzia dell'effettiva volontà d'acquisto. Nel caso in cui una delle due parti risulti inadempiente ai propri obblighi il danneggiato può efficacemente chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento (art. 1453 codice civile, della disciplina dei contratti in generale).

Nel caso di specie le parti hanno inserito nel preliminare di vendita una clausolaescludentela risoluzione del contratto per colpa del venditore. Nei fatti l'immobile promesso è risultato non rispettante le vigenti norme urbanistiche della zona: la Suprema Corte ha ritenuto non operante la suddetta clausola poiché l'abusività dell'edificio costituisce di per sé causa di impedimento alla stipulazione del contratto definitivo e, di conseguenza, ha ritenuto legittima la richiesta del promissario acquirente il quale pretendeva la restituzione della caparra versata al momento della stipula del preliminare di vendita. Essendo la causa impeditiva imputabile al futuro venditore, egli è stato riconosciuto inadempiente e di conseguenza condannato alla restituzione della somma di denaro ora detenuta senza titolo, unitamente al risarcimento del danno causato.

Cassazione: non si può imporre il taglio dei capelli. È violenza privata.

Se per molte donne andare dal parrucchiere resta uno dei piccoli piaceri della vita, per alcune invece ritrovarsi con un aspirante coiffeur in casa, che decide di dare un taglio non desiderato alla loro chioma, non è proprio cosa gradita. Anzi diventa una violenza vera e propria.

Ce lo rammenta una recente sentenza della V sezione penale della Cassazione, la 10413/13, che ha per protagonista un uomo appartenente all'arma dei Carabinieri. Il 39enne ha optato per tagliare di netto i capelli della moglie, dopo aver scoperto un suo tradimento.

Per il quale la donna si era anche presa un pugno (senza però fare esposto).

L'uomo era stato condannato in primo gra do, il 25 gennaio 2006, per il reato di violenza privata aggravata(art.81 cp), proprio per aver imposto il taglio di capelli, minacciando inoltre la moglie di sfregiarla brandendo le forbici. Sentenza confermata anche dalla Corte d'appello di Genova l'8 febbraio 2012.

L'uomo ha tentato così la via del ricorso alla Suprema Corte, respinto però dagli ermellini per un vizio procedurale: "la difesa aveva sostenuto che i fatti accertati dovessero integrare, invece, i reati di ingiuria (taglio imposto per umiliare la donna) e minacce (di sfregio con le forbici)".

E invece non si era proceduto in tal senso. Inoltre era stato anche ignorato il rilievo della difesa secondo il quale l'uomo, brandendo le forbici appunto, avesse intenzionalmente voluto minacciare la moglie, per avere dettagli del tradimento, e non per darle semplicemente una sistemata al taglio. Inoltre lo stesso imputato aveva sì ammesso di aver colpito la moglie con il pugno, ma di aver operato il taglio dei capelli solo per aiutarla a fare ciò che lei cercava di fare da sola.

La Suprema Corte ha condiviso la decisione del giudice del merito sul reato di violenza privata aggravata che «punisce non già il mero atto di umiliazione della persona offesa, ma quello posto in essere facendo ricorso alla violenza o alla minaccia ed estrinsecatosi nell'imposizione di un comportamento o di una omissione in violazione della libertà morale». Gli ermellini hanno anche condiviso l'aumento di pena relativo alle aggravanti di minaccia e ingiuria.